Giallo paglierino di urine andate a male, dipinto a tratti rudi e mano incerta sulla facciata di queste case ATER, odore nauseabondo di mancanza di vita, ovvero merda e scarichi fognari ostruiti da un universo parallelo di sporcizia.
Voglio parlarvi di Acilia, di queste case che si incistano prepotenti a ridosso del mercato e della caserma dei carabinieri, non lontano dalla piazza malavitosa di tatuaggi AIDS ed eroina, parliamo ancora di spade e case occupate e disoccupati con sette figli, volontà di potenza a pantaloni calati - hanno pretese e urlano e spacciano droga, solo per campare, vivono errabondi tra gallinai e ruderi e foreste colme di carcasse di auto rubate, come se questa dimensione urbana si allontanasse dalla Capitale e si avvicinasse, metaforicamente ma anche praticamente, alle favelas e ai ghetti balcanici crivellati dai colpi di mortaio.
Cecchini della vena iniettano getti copiosi di eroina scadente, gli spacciatori impuniti si drogano coi loro clienti mentre vecchi camorristi pensionati giocano a ramino sui tavoli abusivi di un bar altrettanto abusivo, parlano napoletano e mafioso scosciando le carte ed emettendo fischiacci agli spacciatori e lamentandosi dei valori che vanno smarrendosi, non c'è più la mezza stagione e si stava meglio quando il domicilio coatto la magistratura lo imponeva ad Ostia e non qui ad Acilia, i camorristi non amano Acilia, troppa delinquenza lumpenproletariat, pasoliniana ed anarchica, refrattaria alla dignità e alla gerarchia, tossici che infastidiscono, puttanelle minorenni che occhieggiano e si lambiccano in astrusi modi per scopare i ragazzi dei loro sogni.
Siamo criminali per bene, rispettosi dell'anzianità e del colpo in canna, dicono questi camorristi di settanta anni circa, le ombre della sera si allungano sul selciato, per incorniciare un plumbeo tramonto estivo, in canottiera pezzata ed ascelle prive di remore, questi camorristi ci salutano sorridendo gentili, aprendo a ventaglio dentature oleose e catramate come un selciato leporino.
Siamo carne da macello, dice la donna, negra e costipata, incinta, con un negrolino neonato tra le braccia - è una puttana, una puttana redenta dall'amore di un cliente, vivono assieme nel folto di un parco pubblico baracca di alluminio anodizzato e attività di meccanico abusivo, dentro casa pannelli viola e fucsia e arancio a far da tramezzi per scorporare la pastosa consistenza di questo lotto arruffato e occupato, una megera salentina che puzza di tabasco e di aglio mi viene incontro ululando contro il senso ingiusto del karma, non dice nè ingiusto nè karma perchè non ha un vocabolario mentale e concettuale utile per queste occasioni, ma bestemmia muggendo un porcoddio bleso pugliese che lo stato lo stato ingiusto e malvagio ed invisibile si ricorda di loro solo in queste occasioni mio figlio non c'è sta a lavoro, e quando bofonchia lavoro tutti ridiamo, separato da una proba moglie scassacazzi ingravida la troia negra e si rifugia a vivere con lei nel metaforico bosco di Acilia, dove persino un negro è considerato parte del tutto.
La nuora, la negra cioè, ha un permesso di soggiorno sporco di merda di neonato e puzza di latte e sudore e di cazzi altrui visto che per arrotondare si vende scopazzando clienti nel boudoir abusivo e psichedelico, sembra un dipinto di David Tibet sta casetta sfasciata e risibile, umida, caldissima, dalle pareti scrostate e muffose, una palude col tetto a due falde, pezzata, le finestre incastrate alla buona, nessuna planimetria razionale, un giardinetto coltivato a pomodori e motorini rubati.
Fa pompini nell'afa irrazionale di giorni perduti, mentre il figlio gorgoglia volendo latte e tetta negra, ci pensa la suocera a rabbonirlo, mentre la nuora soddisfa le povere voglie di qualche vecchio, vecchi che scuciono pannollini e qualche decina di euro, ingoia la troia, siamo persone orrende invece di fare il nostro asettico lavoro di socializzazione e di redenzione istituzionale ci balocchiamo con questa anomia da poco prezzo e fluttuiamo nella sporca e calda aria del pomeriggio estatici e gaudenti.
Questo terreno è nostro, dice la vecchia, ma saremmo pure disposti a ridarlo al Comune, in cambio di una casa decente.
Il terreno sistemato e curato amorevolmente da mio marito, pace all'anima sua una cirrosi epatica se lo è portato via nel paradiso dei santi bevitori ma senza aplomb mittle-europeo, questo terreno lo abbiamo occupato, allora non è vostro dico io insensibile del tragico ricordo e della pattumiera antropologica dentro cui siamo calati, le assistenti sociali inorridiscono perchè le assistenti sociali sono umanitarie, kitsch e puttane e sognano queste storie d'amore interrazziale e inter-classista, e si pastrugnano la fica nelle loro facoltà di sociologia e di psicologia al pensiero della redenzione della puttana, non sono marxiste al massimo marziste impegolate nell'otto marzo tutti i giorni, io la redenzione non la vedo ad essere sinceri, non la fiuto, sento solo odore di fogna e di foglie marcite e in lontananza rumore di macchine a tutto gas - è nostro, nostro, ripete in mantra la vecchia e si accalda ed accalora e le sue gote vanno tingendosi della vergogna, forse realizza quanto in basso è finita, mai si sarebbe sognata questa vita del cazzo una volta espatriata dal suo inutile bigotto paese del cazzo nel salentino, niente più notte della taranta, riscoperte alla de martino e alla capossela e porco dio l'antropologia senza dolore e senza merda è solo esercizio di stile, copertine di libri adelphi e seminari alla lacan nella comune parigina, ma noi siamo qui nel campo, sul campo, nel ventre bulimico di una terra sapida, non c'è la volontà di sapere declinata nel senso foucaultiano ma ci sono, in compenso e per compensazione, esistenze tritate e spezzate che accollano debiti non loro, martirio sociale, la più bassa e brutta delle assistenti sociali una salentina pure lei o una calabrese orrenda che puzza di muschio etnico e di sud america mi dice di lasciar stare di attenermi al motivo per cui siamo là di non dare adito a polemiche sterili, sterilizzerei volentieri lei, questa puttana malmessa che difende lo squallore dentro cui bivaccano e si riproducono sacche di delinquenza, è questo il mio lavoro, mettere a disagio la gente come te, troia, penso ma mi limito ad una rapida quasi impercettibile scrollata di spalle e le indico le carcasse di barche motorini, sono tutti rubati, lo sai, e lei digrignando i denti da puttana meridionale, quella dei film porno amatoriali da strage di capaci, mi dice che il vero problema è il furto legalizzato delle banche e tutta una sifilitica logorrea da centro sociale, il problema cazzo non sono i negri di acilia, mi dico, il problema sono questi negri bianchi che vorrebbero avere la cultura del senegal nel profondo del cuore e del culo e soffrire di mal d'africa nei villaggi valtour del kenya dove nidi di mitragliatrice e cavalli di frisia preservano la quiete delle ville e delle piscine, bello questo frutto proibito della società multiculturale tradotta nei fatti all'afrore delle ascelle pakistane sul tram, vorrebbero un contatto con la vera cultura locale e per nettarsi la coscienza dal peso del colonialismo succhiano con rara devozione i cazzi elefantiaci dei negri, ma un pompino, ormai, ha eretto il nuovo volto della cultura occidentale, è tutto un caricarsi erigersi e scaricarsi gorgogliando parole di amore universale e new age e porno multirazziale rabbonito, senza giacobini della violenza, senza ghigliottine e florilegi rape.
Che vita di merda, dico tornandomene verso la macchina.
Dietro di me, tutti sorridono amorevoli e buoni e bravi.