domenica 1 luglio 2012

Foucault non è mai stato ad Acilia





Giallo paglierino di urine andate a male, dipinto a tratti rudi e mano incerta sulla facciata di queste case ATER, odore nauseabondo di mancanza di vita, ovvero merda e scarichi fognari ostruiti da un universo parallelo di sporcizia. 
Voglio parlarvi di Acilia, di queste case che si incistano prepotenti a ridosso del mercato e della caserma dei carabinieri, non lontano dalla piazza malavitosa di tatuaggi AIDS ed eroina, parliamo ancora di spade e case occupate e disoccupati con sette figli, volontà di potenza a pantaloni calati - hanno pretese e urlano e spacciano droga, solo per campare, vivono errabondi tra gallinai e ruderi e foreste colme di carcasse di auto rubate, come se questa dimensione urbana si allontanasse dalla Capitale e si avvicinasse, metaforicamente ma anche praticamente, alle favelas e ai ghetti balcanici crivellati dai colpi di mortaio.
Cecchini della vena iniettano getti copiosi di eroina scadente, gli spacciatori impuniti si drogano coi loro clienti mentre vecchi camorristi pensionati giocano a ramino sui tavoli abusivi di un bar altrettanto abusivo, parlano napoletano e mafioso scosciando le carte ed emettendo fischiacci agli spacciatori e lamentandosi dei valori che vanno smarrendosi, non c'è più la mezza stagione e si stava meglio quando il domicilio coatto la magistratura lo imponeva ad Ostia e non qui ad Acilia, i camorristi non amano Acilia, troppa delinquenza lumpenproletariat, pasoliniana ed anarchica, refrattaria alla dignità e alla gerarchia, tossici che infastidiscono, puttanelle minorenni che occhieggiano e si lambiccano in astrusi modi per scopare i ragazzi dei loro sogni. 
Siamo criminali per bene, rispettosi dell'anzianità e del colpo in canna, dicono questi camorristi di settanta anni circa, le ombre della sera si allungano sul selciato, per incorniciare un plumbeo tramonto estivo, in canottiera pezzata ed ascelle prive di remore, questi camorristi ci salutano sorridendo gentili, aprendo a ventaglio dentature oleose e catramate come un selciato leporino.
Siamo carne da macello, dice la donna, negra e costipata, incinta, con un negrolino neonato tra le braccia - è una puttana, una puttana redenta dall'amore di un cliente, vivono assieme nel folto di un parco pubblico baracca di alluminio anodizzato e attività di meccanico abusivo, dentro casa pannelli viola e fucsia e arancio a far da tramezzi per scorporare la pastosa consistenza di questo lotto arruffato e occupato, una megera salentina che puzza di tabasco e di aglio mi viene incontro ululando contro il senso ingiusto del karma, non dice nè ingiusto nè karma perchè non ha un vocabolario mentale e concettuale utile per queste occasioni, ma bestemmia muggendo un porcoddio bleso pugliese che lo stato lo stato ingiusto e malvagio ed invisibile si ricorda di loro solo in queste occasioni mio figlio non c'è sta a lavoro, e quando bofonchia lavoro tutti ridiamo, separato da una proba moglie scassacazzi ingravida la troia negra e si rifugia a vivere con lei nel metaforico bosco di Acilia, dove persino un negro è considerato parte del tutto.
La nuora, la negra cioè, ha un permesso di soggiorno sporco di merda di neonato e puzza di latte e sudore e di cazzi altrui visto che per arrotondare si vende scopazzando clienti nel boudoir abusivo e psichedelico, sembra un dipinto di David Tibet sta casetta sfasciata e risibile, umida, caldissima, dalle pareti scrostate e muffose, una palude col tetto a due falde, pezzata, le finestre incastrate alla buona, nessuna planimetria razionale, un giardinetto coltivato a pomodori e motorini rubati.
Fa pompini nell'afa irrazionale di giorni perduti, mentre il figlio gorgoglia volendo latte e tetta negra, ci pensa la suocera a rabbonirlo, mentre la nuora soddisfa le povere voglie di qualche vecchio, vecchi che scuciono pannollini e qualche decina di euro, ingoia la troia, siamo persone orrende invece di fare il nostro asettico lavoro di socializzazione e di redenzione istituzionale ci balocchiamo con questa anomia da poco prezzo e fluttuiamo nella sporca e calda aria del pomeriggio estatici e gaudenti.
Questo terreno è nostro, dice la vecchia, ma saremmo pure disposti a ridarlo al Comune, in cambio di una casa decente. 
Il terreno sistemato e curato amorevolmente da mio marito, pace all'anima sua una cirrosi epatica se lo è portato via nel paradiso dei santi bevitori ma senza aplomb mittle-europeo, questo terreno lo abbiamo occupato, allora non è vostro dico io insensibile del tragico ricordo e della pattumiera antropologica dentro cui siamo calati, le assistenti sociali inorridiscono perchè le assistenti sociali sono umanitarie, kitsch e puttane e sognano queste storie d'amore interrazziale e inter-classista, e si pastrugnano la fica nelle loro facoltà di sociologia e di psicologia al pensiero della redenzione della puttana, non sono marxiste al massimo marziste impegolate nell'otto marzo tutti i giorni, io la redenzione non la vedo ad essere sinceri, non la fiuto, sento solo odore di fogna e di foglie marcite e in lontananza rumore di macchine a tutto gas - è nostro, nostro, ripete in mantra la vecchia e si accalda ed accalora e le sue gote vanno tingendosi della vergogna, forse realizza quanto in basso è finita, mai si sarebbe  sognata questa vita del cazzo una volta espatriata dal suo inutile bigotto paese del cazzo nel salentino, niente più notte della taranta, riscoperte alla de martino e alla capossela e porco dio l'antropologia senza dolore e senza merda è solo esercizio di stile, copertine di libri adelphi e seminari alla lacan nella comune parigina, ma noi siamo qui nel campo, sul campo, nel ventre bulimico di una terra sapida, non c'è la volontà di sapere declinata nel senso foucaultiano ma ci sono, in compenso e per compensazione, esistenze tritate e spezzate che accollano debiti non loro, martirio sociale, la più bassa e brutta delle assistenti sociali una salentina pure lei o una calabrese orrenda che puzza di muschio etnico e di sud america mi dice di lasciar stare di attenermi al motivo per cui siamo là di non dare adito a polemiche sterili, sterilizzerei volentieri lei, questa puttana malmessa che difende lo squallore dentro cui bivaccano e si riproducono sacche di delinquenza, è questo il mio lavoro, mettere a disagio la gente come te, troia, penso ma mi limito ad una rapida quasi impercettibile scrollata di spalle e le indico le carcasse di barche motorini, sono tutti rubati, lo sai, e lei digrignando i denti da puttana meridionale, quella dei film porno amatoriali da strage di capaci, mi dice che il vero problema è il furto legalizzato delle banche e tutta una sifilitica logorrea da centro sociale, il problema cazzo non sono i negri di acilia, mi dico, il problema sono questi negri bianchi che vorrebbero avere la cultura del senegal nel profondo del cuore e del culo e soffrire di mal d'africa nei villaggi valtour del kenya dove nidi di mitragliatrice e cavalli di frisia preservano la quiete delle ville e delle piscine, bello questo frutto proibito della società multiculturale tradotta nei fatti all'afrore delle ascelle pakistane sul tram, vorrebbero un contatto con la vera cultura locale e per nettarsi la coscienza dal peso del colonialismo succhiano con rara devozione i cazzi elefantiaci dei negri, ma un pompino, ormai, ha eretto il nuovo volto della cultura occidentale, è tutto un caricarsi erigersi e scaricarsi gorgogliando parole di amore universale e new age e porno multirazziale rabbonito, senza giacobini della violenza, senza ghigliottine e florilegi rape.
Che vita di merda, dico tornandomene verso la macchina.
Dietro di me, tutti sorridono amorevoli e buoni e bravi.


sabato 10 marzo 2012

Il primo cesso





Il primo cesso della Borgata Finocchio è una frasca piena di camionisti e transessuali, scritte sbilenche su latrina e diarrea e cielo d’asfalto tutto sopra come un fascio di luce neon per un panino che non avrai mai, prendi quel numero di cellulare tracciato con grafia incerta tossica ed alcolica, morbo di Parkinson con forte introflessione anale, pompini bulgari ed albanesi e problemi ormonali e psicologia spicciola di amore filiale di questi trans mitologici coi cazzi blesi e le tette plastiche e il cazzo eretto e il naso rifatto cesellato dalla cocaina e gli accenti sudamericani, cellulare lasciato con tanta speranza e umanitario senso di partecipazione su una tavola di legno a cui ogni spompinatore si appoggia per fare la cacca.
Messaggi esistenziali di sesso promiscuo, girotondo e carnevale di passione smodata, morte totale dell’ortografia perché troppo spesso la trasgressione sessuale si accompagna alla trasgressione sintattica e grammaticale, bravo uomo rumeno cerca cazzo da adorare, diventa tragicamente bravo omo rumeno ceca cazo da adorare, e qui puoi perdonare al ministro degli esteri e alla caritas e alla integrazione comunitaria e razziale il peso della ignoranza delle campagne di bucarest, l’integrazione razziale dei preti è amore è cazzo nel culo di bambini da sverginare fai la comunione con dio cristo e lo sperma raggrinzito del prete di frontiera karl marx carlo giuliani e la nambla.
Paramenti pentecostali viola, camionetta della cooperativa sociale, prendete preservativi ulula il prete in aperto contrasto con la dottrina e la fede, prendete preservativi come li prendo io per confessare analmente i vostri pargoli, battesimo di sangue e di psicologia ritorta, bravi cristiani questi trans, maya 2012 e Marc Dutroux, gusti simili nel nome del padre del figlio e di quanto ci piace odiare, è una strada lunga e catramosa chiamata Casilina sporca ed ingombra di capannoni e di camion, il prete è fermo in mezzo alla strada accanto ad una piazzola tetramente illuminata da un lampione tardo vittoriano che sfarfalla bargigli arancioni, me lo rimiro con quel disgusto nietzschano da montagna e da nebbia, sento lo stridore dei treni della deportazione, contro il prete si ha solo il campo di concentramento, neve e camini e comignoli e fornaci a pieno regime, si fottano loro padre pio e santa maria goretti, la sifilide e l’aids e la clamidia scorrono letali come infezioni sacrali katal huyuk del sesso orale, dove è il Papa dove sono le cicatrici dove è la redenzione l’epifania dove è la strada di damasco quando attorno hai solo le puttane della Borghesiana.
Anche Maria Maddalena era una prostituta, bofonchia il Don riallacciandosi la patta, con quel cazzetto moscio e ricurvo come uncino, la minorenne albanese è paonazza e sporca di sperma, me lo immagino preciso e sputato il maiale, fatto di cocaina, ad intimare prestazioni, a bestemmiare, succhia il cazzo di cristo le diceva, nutriti della merda del signore, il mio sangue è il tuo sangue, e giù una sequenza di soddisfacenti porco dio perché ad un prete in fondo per godere basta poco, una fica minorenne e una sapida bestemmia, anche maria maddalena continua anche maria maddalena faceva sesso, ma lo stiamo circondando e nessuno di noi ama particolarmente gesù, fa freddo è notte ed il posto è di merda, siamo tutti lontani da casa intirizziti stanchi e carichi di odio, odio nei confronti di gesù e di questo prete, ascoltiamo i Kylesa e i Pelican e smozzichiamo panini e sigarette e birra, prete, dice uno, vieni con noi, e il verbale sarà speciale, lo portiamo dove il folto della boscaglia promette sospiri e gemiti di camionisti facendoci strada coi manganelli e le lucine elettriche, vieni con noi, lui borbotta protesta piange anzi piagnucola come una cacatina di mosca, lo sanno i tuoi parrocchiani, lo sanno che vieni a fare di notte, eh, ?
Avanziamo come un plotone d’esecuzione, lui ha un colorito cadaverico e puzza, esattamente come tutti i preti, puzza di tabacco di qualche droga erbacea di paura e si sudore e di carne est-europea, cosa volete farmi bofonchia con i lucciconi agli occhi, questo è un abuso, non potete, ho dei diritti, certo dico sorridendo i diritti della costituzione repubblicana dell’antifascismo e della pedofilia, sono le stesse cose dice quello dietro di me, annuisco, potremmo torturarti ed ammazzarti e spargere i tuoi resti ai quattro venti, la testa nell’Aniene, le braccia sulla Casilina, le gambe sulla Prenestina, il tuo cazzo a Via di Bravetta, perché il cazzo a Bravetta ? mi chiede uno, perché ci sono tante chiese da quelle parti, santuari e santità mica vorremo deluderli, no ?
Stiamo ridendo tutti, mentre il piccolo stereo rimanda accenni drone da foresta e plenilunio, è molto black metal questa marcia della morte e della paura, non abbiamo facepainting ma pistole e divise.
Satana non c’entra niente. E’ solo una spicciola vendetta da periferia romana.
Scommetto che vai dai No Tav, gorgoglia una voce davanti a me, il prete dice no no per carità, per caritas, per via marsala per san lorenzo, per tutti gli Dei, No Tav, napalm e via andare, centrali nucleari, così ci toglieremmo dal cazzo pure questi camionisti che cagano nei boschi e giocano ad incularella nei depositi ATAC, finirà tutto questo, finirà come finiranno i preti ed il loro dio di merda.
La latrina centrale è dove tutti i miasmi spermatici e merdosi si assommano, dove i preservativi si accatastano inerti facendo marcire e inacidire il liquido seminale, dove la merda forma cataste di letame essiccato, dove divani putridi e brodosi osservano prestazioni sessuali sempre più degradanti.
Spogliati, gli ordiniamo, il suo timido accenno di ritrosia è lenito da una manganellata che gli apre una ferita sulla fronte, da cui zampilla del sangue. Piange, singhiozza, cianotico come il porco dio. Cade in ginocchio con le dita a schermare gli occhi e in un patetico tentativo di tamponare la ferita.
Spogliati, stronzo.
Questa volta esegue, senza particolare ritrosia.
Nudo è rivoltante. Un involtino primavera flaccido e bianchiccio, pieno di rughe. Questa sarebbe l’autorità della Chiesa ? Andiamo bene, andiamo proprio bene.
Una volta nudo, ci avviciniamo e lo colpiamo a calci, facendolo finire nel centro putrescente della merda, gli sfugge un urlo secco ed improvviso, di raccapriccio dolore ed umiliazione, che è poi in fondo ciò che potrebbe volere questo miserabile scarafaggio.
Ti viene il cazzo duro in quel pantano di broda marrone ? Eh, stronzo?
Ma soprattutto, ti viene mai il cazzo duro, a parte quando devi mellifluamente sborrare in faccia a qualche ragazzina ?
Impiastricciato e piangente, al limite del soffocamento, implora misericordia.
Non ci sono cieli azzurri, qui, gli dico, il cielo azzurro non è il cielo di Roma, brutto pezzo di merda. Ricordatelo. Ci prendiamo i suoi vestiti e lo abbandoniamo nel folto della boscaglia, e ce ne andiamo ripartendo con le macchine.
Meditazioni notturne, per te brutto stronzo.

venerdì 9 marzo 2012

Con le spalle al muro





Puoi riconoscere un vigliacco dal sudore, da quella puzza incancrenita di ascella a ruota libera piscio di cane in bocca e sulle tempie, tempie che pulsano e che puzzano, richedendo misericordia come la costa concordia, inverno del nostro scontento tutti a bordo di questo figlio bastardo quartiere dimenticato  dal piano regolatore verde pubblico ma un giardino con stronzi di cane e spacciatori piegati dalla rigidità della stagione è una non-esistenza,  è Bastoggi e Stalingrado ma senza panzer senza elmi d’acciaio ma bustine e stagnole e carta da parati scrostata dietro cui nascondere il relax confortevole di un viaggio a Regina Coeli.
Guardo il ragazzo – indossa quella tuta adidas che se vivi a San Giovanni puoi definire vintage, ma che dalle parti di Boccea è solo molto IPM Casal del Marmo, rossa con righine bianche, l’andatura dinoccolata povera ed antica dei tossici e dei borgatari rimasti orfani di Pasolini, ha uno sguardo vacuo, istupidito dalle ore di play station, dalla coazione a ripetere di rosticceria articolo 187 e notti raminghe randagio tra discoteche in cui è sistematicamente rimbalzato alla porta quelle notti da naufragio quando rimane da solo, in camera, coi poster dei Colle der Fomento e di Ice One e le locandine virali di qualche rave, la madre lo implora di abbassare lo stereo, e di togliersi quella tuta che puzza, ma non di sudore.
Guardo questo ragazzo e le sue corse disperate sulla tangenziale, a fare consegne di pasticche e di pasticcini per eroinomani, sotto il cielo grigio incupito e cementificato di una città che ha dimenticato il senso della parola amore.
Il rumore di tamburi lontani, una eco che va scomparendo come i lampi all’orizzonte, retate, duecento pattuglie di polizia e carabinieri coi lampeggianti blu ad irrorare di paura la notte, stivali del radiomobile, i ricatti morali e materiali del manganello i soprusi, sei una merda dice il maresciallo facendogli leccare la punta degli stivali, gesuddio pensa un brigadiere abbastanza novizio e sufficientemente frocio per provare un brivido da cazzo duro, un sussulto temprato da notti passate allo Sphinx a fistare il suo partner, ma anche una qualche vaga memoria di garanzie costituzionali, non è giusto tutto questo pensa mentre il maresciallo continua a farsi sciusciare lo stivale dalla lingua piangente del malcapitato, questo non è un criminale sussurra un sovrintendente capo della polizia entrato casualmente nella stanza alla ricerca di un ufficiale per fargli firmare l’annotazione di reato, questo è un povero coglione, lasciatelo stare che così bofonchia farete di lui un maldido potenzialmente ergastolano, non mettetelo con le spalle al muro, ma il maresciallo non ha orecchie per intendere ma solo stivali da esibire scintillanti e prussiani ben bene insalivati, è saliva di tossico borbotta un sottotenente che pur gerarchicamente superiore è nei fatti un subordinato, troppo giovane troppo timido e sbarbato per poter capovolgere l’andamento della situazione e la brama giudiziario-sessuale del maresciallo, anzi gli guarda con timore oggettivamente reverenziale le decorazioni i nastrini del Tuscania e dei turni in Iraq che svettano sulla divisa, proprio sul petto.
Guardo questo ragazzo piangente, vessato, umiliato – l’unica cosa davvero positiva, mi dico, è il rovesciamento dei principii costituzionali. Magra consolazione però. Lui non parla, è fedele al rigido codice dei film e della malavita di plastica, di quella che lui pensa essere la malavita, e di cui sa tutto perché lo ha sentito nei testi rap. Musica da negri, e quindi di merda, dice un ispettore in borghese e tutti poliziotti e carabinieri annuiscono, un anziano e canuto maresciallo si lancia in una filippica contro la figlia rea di ascoltare quell’abominio su basi elettroniche, i poliziotti ridono e gli sbattono la tragica evidenza in faccia, tua figlia se la ingropperà qualche negro della stazione termini, ma porco dio urlacchia il maresciallo vecchio, il sottotenente non ha più fiato in corpo per una reprimenda e si limita a dire che non si dovrebbe bestemmiare, ironia penso, quanta ironia, non si dovrebbe bestemmiare ma intanto il tossico sta sempre carponi nella metafisica trasposizione sadomaso della giustizia, è solo questione di priorità, e di tipi di droga.
Sai che questo pezzo di merda, e non c’è divisa nella stanza e in tutta la caserma più in generale che abbia utilizzato epiteti più amorevoli e gentili del “pezzo di merda”, mi sibila nell’orecchio un vicequestore aggiunto che ricordavo già da prima di questa operazione, si era caricato di shaboo e crack ed eroina, shaboo, dice scandendo ogni singola lettera, eh shaboo ripeto io ma l’eco muore fuori in strada dove ha iniziato a piovere e dove la pioggia si fonde alle lacrime e alle recriminazioni in tuta di parenti ed amici dell’arrestato, niente più musica da negri per questo pezzo di merda, shaboo ripeto ancora la droga dei kamikaze giapponesi la droga dei filippini brava gente, non si drogano di giovedi allora sorride credendo di essere tremendamente spiritoso un commissario capo semi-calvo e butterato il cui volto sembra una riedizione dei Goonies in una sola persona.
La stanza è un florilegio di divise, di torri di stelle di torri con stelle di barrette una due tre, tutti arrivati per godersi lo spettacolo, la messa in scena della desolazione umana, e romana, questa tuta piangente, questa tuta per sempre spezzata cosa mai potrà pensare di noi, ma è un interrogativo stupido, che non mi renderà una persona migliore ma solo un frustrato impenitente, perché devi farti un muro, un muro lungo l’anima, un muro in gola, e ripeterti che il nemico è il cittadino, devi pensare a tutti gli acab che questo pezzo di merda, ed inizi anche tu a figurarti il pezzo di merda come unico criterio definitorio, avrà gridato al parchetto, allo stadio, in rosticceria, credendo di essere spiritoso, devi immaginartelo intento a rompere il cazzo e dire, dirti in primis, che la sua punizione non sarà nel calloso dispositivo di un giudice ma nella punta leccata di quello stivale.
Guardo questo ragazzo. Questo…nemico.
Queste pareti hanno conosciuto odori, paure, fobie, sangue, calci, sputi, hanno visto gente piegata, annichilita, fatta a pezzi, quella donna rumena presa a schiaffi con guanti da saldatore e ricondotta alla ragione del silenzio e delle lacrime dopo riottoso incipit di protesta, hanno visto gente ingiuriata umiliata spezzata nel profondo.
Puoi cantare tutto quel che vuoi, farti forza e autoconvincerti di essere un dio, ma la verità è che parlerai, come parlano tutti, e anche per te scorrerà quel sudore. Con le spalle al muro ormai, ci rivedremo, ed ogni volta sarà peggio.

sabato 11 febbraio 2012

Come la neve al Prenestino







Sei bella come la neve al Prenestino.
Un manto di purezza bianca che va coprendo il profilo altrimenti grigio e nero dei palazzi e del labirinto chiamato tangenziale, dove ogni uomo cessa di avere una dignità e diventa una transazione economica virata al degrado tra siringhe, fazzoletti insanguinati ed ossa macinate dallo scorrere cristallizzato del tempo, un fluido interscambio di taxi, autobus per deportati e perdenti, e i lavori per stazioni della metro che non saranno mai inaugurate.
Anche tu come quella neve cadi dal cielo, in concentrici cerchi stellari, con l’orizzonte tremolante di acqua piovana e le nuvole nerastre battute da un vento gelido, un vento malinconico, che sa di spezie e di povertà e che si incanala ululando tra gli androni cementificati di questi alveari di edilizia popolare, chiese casematte con le mitragliatrici e i cavalli di frisia i vigilantes e i controlli serali, ed i lampeggianti della polizia che irrorano di secrezioni ectoplasmatiche decisamente blu i marciapiedi su cui camminano in silenziosa processione casalinghe cinesi, nessuna scuola, le poche piazze giardino coltivate a cactus e peyote ed eroina, un pantheon di divinità hip hop tatuaggi scadenti e corsi professionali da carcere minorile, perché tutti sono innocenti, dicono le menti eccelse.
L’avvocato mandò in esecuzione il precetto facendo pignorare la macchina del padre del tuo migliore amico, perché non era stato pagato in termini da lui reputati soddisfacenti, l’avvocato era ed è un uomo algido, austero e unticcio, in giacca e cravatta e mocassini da stupratore, un uomo che non ha mai stretto una mano con la sola e pura intenzione di porgere un saluto, è sempre stato distante e compassato, con quegli occhi mobili insondabili da squalo, lo studio arroccato in un feudo bene dove le case hanno minimo due bagni e tre balconi o giardini curati da filippini ben poco sediziosi, uno studio lucente e spazioso con una esposizione su una villa pubblica adibita a parco, con le coppiette a cinguettarsi amore più o meno eterno – quello studio, feudo nascosto agli occhi, dove per andare bisognava prendere due bus e qualche fermata di metro, sentendosi man mano che il viaggio proseguiva stranieri in terra straniera, i vestiti inadeguati, il trucco pesante, la camminata vistosa e territoriale, un contegno lombrosianamente destinato ad essere rifiutato.
Brave casalinghe condannano, puntano il dito, mormorano commenti scandalizzati.
Contro di loro.
Come prima lo avevano fatto con te.
Le casalinghe timorate di dio che si masturbano sul cadavere di Sarah Scazzi, mentre Barbara D’Urso trasfigurata in un cono di luce da epifania caldea troneggia e secerne commenti di una bontà zuccherosa e da carie al cervello, c’è puzza di morte, di dolore, di sofferenza, lo strazio di una madre esibito nella stanza dei trofei tra un pompino da grande fratello e una discesa sulla fascia di un mediano omosessuale, le casalinghe vengono e sbrodolano liquidi dalla vagina pastrugnandosi ferocemente mentre la madre di Elisa Claps cade in tranche dopo aver troppo pianto, vengono in sincrono quando lei sviene, ed è un tripudio costellato di club privè e ville architettonicamente conformi ai precetti americani e feste private e rituali borghesi comodamente organizzati nel tepore della sera dopo una giornata spesa a rinfocolare il placido status quo.
Casalinghe occhieggiano silenziose, o ciarliere, con i cagnolini puffolosi al guinzaglio lungo, cadono stronzi di minicane che i filippini si umiliano a raccogliere, mentre le padrone proseguono nella loro infaticabile opera di moral e social bashing, chissà da dove vengono questi orrori, sputato, ecco quel che pensano, lo vedi, lo capisci, non ci vuole una laurea in antropologia per fiutare il disgusto e l’eccitante senso del nuovo dell’esotico del pericoloso che balena in quegli occhi languidi e su quei nasi rifatti, orrori lovecraftiani che sciamano neri e cattivi dalla periferia dimenticata, da quelle cronache cariche di amore e compassione dei missionari, santo cielo pensano ma allora esistono davvero.
Ogni mese di lavano la coscienza portando magliette sporche alla Caritas.
Ed ora, in questo preciso momento, vedono sconvolto l’equilibrio etologico della loro zona.
Non sanno  nulla, e proprio per questo si sentono in dovere di giudicare.
Non sanno quanto sei bella, profonda, ricca di sfumature, ma devono giudicare per evitare che qualcuno lo faccia con loro, hanno il terrore di restare sole ma ti accollano ogni frustrazione mondiale, il loro dito è un ultimatum, una condanna inappellabile, si fanno idee risibili e sociodeterministicamente orientate di anomia pur senza aver mai  letto una riga di Durkheim o Talcott-Parsons, crudo e cotto, freddo e crudele, il cielo sopra i Parioli minaccia pioggia, mentre l’avvocato riceve i suoi clienti e blandisce e utilizza un contegno da amico, l’idea commerciale che può avere dell’amico, mentre fuori le casalinghe mantenute e puttanesche continuano a macinare le tue ossa.
Hanno deciso di farti il vuoto attorno, di espungerti dal consesso sociale, forse per i tatuaggi, forse per le derive blues notturne tra neon e giardini trascolorati nel nero assoluto e per quelle direttrici psicogeografiche attraverso tutta roma che ti hanno resa così potente, pensano di potersi crogiolare in una tua presunta debolezza, ma non vedono la tua enorme forza, perché altrimenti dovrebbero ammettere a loro stesse la paura, il terrore sacro di rimanere ferme davanti alla solitudine del cosmo. Hai le spalle forti per non curarti di queste puttane, casalinghe frustrate ed emotivamente costipate, non hanno mai guardato se non per interposta persona, nella fattispecie la fica di Barbara d’Urso, il dolore, quello vero, si sono crogiolate in villaggi turistici e serate gotiche e taglietti indolori sulle braccia, dicendosi maledette e solitarie e destinate ad una sofferenza putrescente, salvo poi fuggire ogni singolo sottoscala, ogni locale fumoso e invaso di corpi sudati dove la droga diventa la bandiera dei pirati a caccia di innocenti da sacrificare, gringos e bande sudamericane e contest hip hop e graffiti vergati a testa in giù sui ponti ferroviari, la perdita, il senso di quella perdita, non sanno cosa sia, vivono giocando alla tristezza alla mestizia alla malinconia, quella malinconia urbana da ponte.
L’avvocato chiede i suoi soldi, assicura che è tutto a posto, ma non è tutto a posto, per quante lauree possa aver conseguito non può ingannare il senso di sopravvivenza e di autoconservazione di queste madri giunte da lontano, i loro figli rinchiusi ed istituzionalizzati tra domandine e mute richieste di pietà.
L’avvocato non ascolta davvero. Le orecchie deve averle sviluppate per mero senso di appartenenza al genere umano.
Né l’avvocato, né le casalinghe, né i feroci paladini della purezza underground potranno mai capire, farti la tabula rasa attorno è solo mascherare la loro debolezza, tu scendi sinuosa e bella e forte e determinata e parli, mi parli, di ciò che sei, di ciò che sei sempre stata e che sei diventata, io ascolto, a volte sorrido a volte rimango in silenzio, in trepidante muta adorazione, non sono perplesso, sono semplicemente senza parole, perché non so cosa dire, qualunque cosa io possa dire diventerebbe un sofisma inutile, un bizantinismo inadatto ed inadeguato, ti ascolto e mi rendo conto di essere vivo, nonostante attorno a noi scorrano fiumi di ipocrisia, di sofferenza, di solitudine, di pianori alcalini e fabbriche dismesse, il vapore appanna i finestrini e ti guardo negli occhi, quegli occhi così neri, così grandi, così ricettivi, quegli occhi che hanno conosciuto la tempesta e i parchi e la notte, il ventre cupo della notte, quegli occhi che mi infondono gioia e serenità, sei bella, rendi queste strade migliori nonostante a saperlo siamo solo io e te, anzi forse proprio per quello.






domenica 5 febbraio 2012

Un Padre






Un padre ha diritto di fare del male, perché un padre è tradito nella biologia e nei sentimenti e nella atavica riproduzione ferina ed animale, un padre colpisce uccide dilania e in primo luogo lo fa con se stesso senza traccia alcuna di rimorso o di compassione, un padre è spietato e draconiano e sincero e nudo davanti a se stesso, un padre taglia le sue braccia con un coltello e fa sgorgare stille di sangue quando il dolore diventa insopportabile quando eradica e travalica i consunti limiti mentali e morali della sopportazione e diviene vomito totale che spinge sull’esofago, ci penso mentre ti vedo stesa sul letto assonnata e rapita al tempo stesso da questa cruda rappresentazione del dramma paterno, la leggenda di caino e la maledizione della solitudine errabonda su una terra depopolata, non è una storia di vendetta ma di verità un padre lava sempre l’onta in primo luogo per se stesso e poi per amore filiale, c’è quella scena di raggelante crudezza in cui, con piglio sicuro e conati di rabbia e frustrazione, lui va in cucina a gettare nel secchio le ceneri della figlia morta, un pugno allo stomaco niente facile splatter consolatorio non c’è sangue ma una crudezza senza pari un coltello che possiamo sentire scavarci nell’anima e ci guardiamo come a dire questo è il limite questo è il punto di rottura il ciglio dell’abisso su cui Nietzsche e Sade si fermarono a guardare di sotto lo zabriskie point per ammirare il brodo primordiale dell’umanità negata, non è questione di odio ma di sincerità, c’era stato l’hardcore minimale e crudo di P. Schrader quella propensione calvinista al male ontologico alla miseria morale alla navigazione a vista tra neon e bordelli e larvate metafore di dannazione ma qui non c’è più nessuna metafora nessun sofisma nessun abbellimento ornamentale c’è un nome sparato in faccia alle vittime torturate macilente e fatte a pezzi c’è la pornografia e la vendetta di un padre che porta fuoco vento e disgrazia la redenzione è un volto rovesciato che guarda da dimensioni ctonie il motore invisibile che fu Kali e Arjuna e riferimenti culturali per devastare la carne possono piangere possono implorare ma lui è sordo e cieco e illuminato da questa aura rosso-iridescente che pulsa e si spande in virali volute, porta giustizia e verità e lo fa col piglio sicuro del cinico greco la lanterna avanti a sé per spingersi più a fondo nel cuore di tenebra che è la condizione umana, ognuno di noi ha la sua tenebra le sue fobie le sue idiosincrasie il suo passo incerto nella malsana palude nella mancata conoscenza e nella trepidante attesa di un evento funesto, sono città di ghiaccio ad ospitarci e te lo leggo sul volto l’ho letto ogni singola volta che ci siamo abbracciati ogni volta che ci siamo parlati o semplicemente rivolti la parola, è quella forza quella costanza che davvero rende le persone ulteriori rispetto al mare della vita è quell’oceano lautremontiano richiamato da Carmelo Bene dalla sofferenza potente e dal chiudersi a riccio contro la vita nella celebrazione della vita stessa ogni birra ogni sguardo perso sulla cresta di schiuma bianca nelle luci basse e soffuse in ogni bacio in ogni singola nota ascoltata in ogni reminiscenza di vita in ogni nichilismo lasciato a decantare ogni attimo di pausa, è giusto sentirsi stanchi e deboli a volte abbandonarsi all’abbraccio e alla protezione alla fiducia perché per troppo tempo siamo rimasti fermi a guardare la vita scorrere come il flusso del traffico perso sotto il tramonto,  a sputare sulle macchine dal cavalcavia e non era debolezza ma propensione al martirio al disossarsi a porre e porgere domande a cui nessuno, noi stessi in primis, abbiamo voluto rispondere, i viaggi senza ritorno il pollo fritto riarso a Pattaya sulla sabbia sporca e claustrofobica con la merda di ritorno, ti guardo e sei piccola e grande al tempo stesso, forte e fragile, determinata e gentile come questo padre, questo padre che semina tempesta su strade australiane, c’è una protezione che non è fallimento che non abdica alla autonomia della persona abbiamo un orgoglio simbiotico, il sonno inizia a vincere la sua battaglia e i fotogrammi compongono forme sdilinquite caotiche la violenza rimane inalterata ma il senso ora è diverso, ora che ci siamo, ora che siamo qui ed assieme, ora che quella solitudine è un ricordo un cilicio per rammentare un memento di troppe notti nomadi e passate all’ombra del nulla a cercare qualcosa che pensavamo fosse fuori di noi e che invece era qui, in questo momento.

Come perdemmo la nostra innocenza






E’ una linea discontinua tracciata con vernice nera sbilenca, a perdersi lungo la tangenziale tra guard rail scrostati e indeclinabili solitudini metropolitane, ossa macinate ossa frullate spezzate dal contenzioso esistenziale di questa deprivazione, notti di cappuccio nero e di cattiveria e di cattiverio camere di sicurezza e anomia da commissariato a rendere sommarie informazioni testimoniali, escusso come scosso come uno stregone uno sciamano potenziato dalla droga e indagato e inquisito non giudiziariamente ma esistenzialmente, inondazioni disperate di psicologia ASL e formalismo burocratico a nessuno importa davvero un problema perché un problema non è mai sociale ma individuale e nessuno ti aiuterà mai, basta con i miti del buon selvaggio ed ascoltiamo i Coil guardando il nulla della notte il verde neon della farmacia notturna e i tremori ed i tremiti ed i languori pentecostali di sofferenza e il sudore e i tatuaggi sbafati dipinti da mano incerta tra Parkinson ed aids, la trasmissione volontaria del nichilismo in cattedrali gotiche incistate nel ventre cavo di Roma dove i parchetti diventano coreografici come Auschwitz e il cielo di catrame e kleenex, locali porno e saune e massaggi e parlour e bordelli minacciati dal moralismo puntuto e pretesco e pedofili di belle speranze in partenza per Bangkok, a quante orribili inutili persone ho concesso libero accesso tenendo fuori chi davvero avrebbe meritato di entrare, a quante somatiche inconsistenze ho permesso di accompagnarmi in viaggi tra La Barbuta e San Basilio portando carichi di morte e di solitudine metallica, disperazioni anodine e isolamento alla Kerouac in angeli di desolazione la mia metaforica torretta di avvistamento ma senza satori zen senza ordalie e consuntivi con quel silenzio avanguardistico speso a rinverdire i fasti di John Cage e John Zorn notte dei cristalli e frantumate le ossa con quel fiotto di sangue e bile arteriosa e marroncina, sto morendo mi disse e stava morendo davvero con la siringa nel braccio a scurire la vena e a dare consistenza bluastra alla carne un alone in virale espansione, la bava bianca e gialla e rossa, gli occhi vacui ispessiti dal dolore e dalla malinconia dai flash della notte dai fari della macchina, ed i cazzo i cazzo i cazzo quelli terribili da autogrill e da distributore povero di benzina con le siepi istoriate di preservativi spermatici fazzoletti cornetti smozzicati e lacci emostatici e copie consunte de Il Messaggero, la situazione politica con uno stronzo di cane sopra spiattellato come una frittata di merda essiccata, sto morendo borbotta ed io lo guardo in muta contemplazione non ha bisogno di aiuto mi dico e lo dico perché sono un vigliacco non ha bisogno di aiuto perché non saprei come darglielo chi chiamare oppure, più probabile, saprei chi chiamare ma non giustificarmi davanti a dio e alla legge, così compongo il numero di emergenza e richiedo una autoambulanza mentre su strada alcune puttane volgono lo sguardo e scrutano con finta partecipazione, tra contrattazioni cocaina e sberleffi, la nostra fine, la perdita della nostra innocenza, non è modo di morire questo, tra asfalto mignotte e merda di cane, quale cazzo di epitaffio potrò mai darti, quale ragione ci ha spinti qui, e no mi dico non voglio averci niente a che fare, che il destino ci trovi sempre forti e degni il volto di Degrelle in foto bianco/nera a campeggiare su quel manifesto che ti avevo dato, segnale rituale di buon augurio quando sei andato a Londra a cercare un futuro ed ora, tragica ironia della sorte, stiamo consumando la fine, la fine ultima e abbacinante, proprio in Italia, a Roma, in una periferia eterna e cancerosa, tra palazzi a picco sul grigio e ragazzini che giocano all’hip hop tracciando tag e graffiti, la metempsicosi geografica e musicale la traslazione delle anime e l’innalzamento della soglia di dolore, ti hanno lasciato solo a nessuno è fregato un cazzo del sapere come sia cominciata e perché,  non c’è nulla di ludico nulla di ricreativo è quel vuoto da riempire che prima riempivamo con Evola e Nietzsche e che poi ha assunto altri connotati, è la pietà che ho sempre detto di non poter provare e che invece mi si manifesta nuda e splendente in questa notte di neon e lampeggianti, è la morte dell’onore, non sono una persona migliore di te, lo sappiamo entrambi ma tu stai morendo e non puoi dirmelo, stai gorgogliando bava ed io sono fermo vestito di nero e con le mani sporche di colla, la macchina con il bagagliaio mezzo aperto i rotoli di manifesti appiccicati ai sedili e le rune del tuono nella mente, cosa stiamo facendo come ci siamo arrivati come siamo giunti a questa fine ingloriosa, nemmeno Goethe quando chiedeva luce più luce sul punto di morte si sarebbe immaginato questo epilogo tra le Torri cementificate di Roma, luci di finestre irreali fortezza bastiani di solitudine, graffitari ascoltano pessimo hip hop oltre il cavalcavia e le trans gorgheggiano canzoni di laura pausini trionfi ispanici e due clienti cocainomani commentano l’ultimo libro di Fabio Volo la lettura soprattutto quella inutile ed indolore rende liberi, e tu mi stai morendo davanti, mi stai morendo a pochi passi, non muovo un muscolo quasi nemmeno respiro più, sono paralizzato, glaciale, ibernato, ho stalattiti appuntite che scavano e cesellano la carne e il fiato condensato in nuvole di vapore fa freddo ma io sento freddissimo, vorrei l’ambulanza fosse qui ed ora l’hic et nunc jungeriano di tor pagnotta le scritte murali un nuovo presente la rimembranza il funerale le braccia alzate da pochi intimi per una morte così sconveniente così tragicamente contraddittoria, finirai nel novero dei camerati che tutti discutono e che nessuno vorrà considerare un camerata, per questa fine pagheremo caro, ma tu stai pagando di più il prezzo più alto ed io continuo a ragionare in termini plurali, in termini di mio stronzo ego, di satrapiche dimensioni metropolitane, è una Roma chiusa indifferente cinica su cui svetta una luna madreperlacea candida come il cesso del distributore e gli schizzi di merda lambiscono i nostri volti tra stelle comete e morte e dolore e sofferenza e io non posso dire altro, se non che mi dispiace e mi netterò la coscienza mettendo a soqquadro le mura contendendo ai graffitari del cazzo ogni singolo centrimetro coprirò le loro tag e i loro messaggi con il mio odio con la mia morte interiore con le mie svastiche con la mia retorica, abbiamo sbagliato tutto, io forse più di te, perché tu lo capisci mentre vai abbandonandomi tra bolle di sangue e rantoli e convulsioni e mute richieste di empatica compassione, io sono fermo nel mio mondo perduto di codici di formalismi e di rituali, verrà il giorno della espulsione per indegnità e capirò di essere stato ingannato da me stesso, di aver tradito la parte più importante del mio essere, ti dedicherò questa scritta mentre l’autoambulanza non potrà che constatare il decesso e ripartire vuota nell’attesa cupa e lancinante dell’arrivo della polizia.

mercoledì 1 febbraio 2012

In questa Roma





Non c’è neve in questa Roma, non ci sono apparentemente che luci e ferite e cicatrici e alberghi da poco prezzo e treni che sferragliano verso il nord, verso una meta improvvisata lanciata a velocità tale da rasentare l’accelerazione bianca crudele estatica, quel picco montano di cemento abbarbicato sulla tangenziale e sulla geometria euclidea della droga, capannelli di marocchini e di pakistani e globalizzazione dello spaccio ragazzine piangenti una dose un pompino due dosi una scopata dolorosa nel culo  glabro e virginale di liceale poco poco uscita da I Cesaroni e dai libri della Pijola, discoteche per minorenni e pedofili pingui rattristati e razzisti, non c’è neve né speranza, un vento pieno di fumo carico di escrescenze tumorali e di peep show con quelle sagome tra lo scalo di san lorenzo e porta maggiore e la casilina e le luci arancioni e le comitive di punkabbestia che negano dio e la famiglia e si drogano coi cani fumando calumet della insipienza sociale e barcollando poi tra fontanelle sfasciate acque nere e pioggia, pioggia di piombo grigia densa e macchine che li evitano per miracolo, non c’è neve oggi, non c’è stata ieri, mentre il treno sferraglia sinuoso e pedante rallentando la sua corsa triste, il mio sguardo perplesso il mio viso incorniciato dal cappuccio nero gli occhi spenti e desolati dopo un viaggio lungo riflessi carnicini e purpurei e poi neri di questo finestrino opaco lercio sporco sudicio, compagni di viaggio non umani, compagni di viaggio borghesi senza la metastasi della malinconia senza orizzonti da frullare nel sordo gorgogliare della motrice binari sedimentati tra paesaggi urbani porti cieli e foreste e mondi a picco sul cuore, cantano di carlo giuliani e ci fanno film e spari e canzoni colorite e colorate e buchi sulle braccia e la nientificazione totale abbacinante lo sguardo vorace e cieco, compagni di viaggio logorroici e io chiuso nel mio mutismo isolazionista e socialmente deprivato con le cuffiette a scavare solchi sonori nel mio cervello chiuso in me stesso chiuso nella memoria chiuso in ciò che temporaneamente ho  lasciato e che presto ritroverò, e loro pontificano ciacolano uggiolano come cani battuti presi al guinzaglio e all’amo da una vita di anomia borbottante e bestemmiante, sequenza feroce di disfunzioni, quei mostri che ballonzolano draculeschi nel cuore di ognuno di noi ma che alcuni si ostinano a lasciar fermentare, punkabbestia chiedono l’elemosina da spendere poi in pessima birra e in altrettanto pessimi concerti da centro sociale, giardinetti curati con estasi e siringhe, trasfusioni di aids sotto lo sguardo sereno del cielo di roma, questo cielo senza neve ma con tanto vento e con quell’odore fumante di pollo arrosto e di maestà, gretta, insolente, insensibile, la città è chiusa come sono chiuso io, mi rivolgono la parola sperando in feedback apprezzabili ma non ho tempo da dedicare alla conversazione, sono in contemplazione del mio volto, guardo gli occhi nelle iridi nelle pupille nel nero che vortica e si arriccia e gorgoglia come un canto di maldoror mentre fuori i graffiti dell’ostiense e del testaccio e le mura franate e mai sanate e il dolore mai rimarginato scorrono fusi tra loro in una grandguignolesca parafernalia processione di strazi e di rimembranze cimiteriali, mi sono dovuto allontanare e perdere tutto per ritrovarmi, per ritrovare il sapore di queste ricerche di queste esplorazioni, we found love in a hopeless place, attraversando le terre di confine il settentrione del nostro incontro tra la neve a passo lento con il fiato a condensarsi in nuvole di vapore e fuori il grigio ed il bianco e un sole pallido lunare smunto a riflettersi sui tetti morti delle cascine alberi scheletrici altrettanto grigi e una linea di terra e cielo tutta agghindata di niente, un silenzio irreale nonostante stiano parlando, e il treno scorre e si disperde lungo la campagna, sempre più giù, sempre più lontano, c’è sempre un motivo quando ti guardano dentro senza sapere chi sei, da dove vieni, e per quale motivo ti sposti sui segmenti di acciaio elettrificati,  c’è il motivo del morboso moralismo, il considerarti personaggio e persona non grata, l’asfissiarti di domande stronze e di risposte che essi stessi formulano senza attendere che tu apra bocca, se mai la aprirai, non è contegno zen, né misantropia, o timidezza, è solo sonno, sonno e poca voglia di condividere te stesso con queste nullità, le parole andrebbero centellinate e riservate a chi le merita, non sparse a profusione in uno slancio di ecumenica condivisione, le vostre disfunzioni stronze non sono le mie, le vostre paranoie plastificate debitamente e con tanto di formale timbro di oscurità non mi appartengono, guardo in maniera obligua e sbadiglio, nel loro  tragico tentativo di sorprendermi di scioccarmi di provocarmi io non faccio che ululare di sonno e di stanchezza e di malinconia, agevolare la vostra crescita individuale non appartiene alla mia ragione sociale, continuate pure a nascondere i vostri scheletri nel mio armadio e a sentirvi liberi e migliori per questo, non ve lo impedirò perché in fondo sono buono, di quel genere di bontà che un giorno uccide, e state là in silenziosa ammirazione con gli occhi trasognanti della luce di barbara d’urso sperma divino catodico reiterato nel samsara del gossip e della cronaca nera, una pessima equazione non risolve enigmi antropologici, troppi cani hanno pisciato sulle vostre scarpe troppi gatti hanno finto amore e passione per i vostri croccantini, sono una persona migliore dell’ologramma che avete formulato con l’assennato giudizio della sbronza serale del vostro incedere scontato di gossip underground, questi viaggi portano al golgotha crociuncinato alla rivelazione ultima di treni sfrigolanti e vapori terrosi e neve sciolta e la bufera e il vento glaciale, a guardare di fuori, il sibilo e la furia degli elementi, in questa Roma non ci sono che dimensioni spaziotemporali alterate e discontinue e parate egotiche sbraitate nel nome di un grado sempre maggiore di solitudine, non c’è che carta, non c’è che cartone, conglomerati di barboni e di carità pretesca e di barbieri etiopi dalle forbici oleose di psoriasi, c’è un personaggio in fondo al tunnel, la proiezione di chi non sa nulla ma semplifica nel nome delle convenienze, questo non è un gioco, non lo è più, è un incontro, una epifania, una redenzione, una catarsi, è il volto rovesciato e meraviglioso di noi stessi, la negazione della negazione, l’ultima presenza in cui si giunge a consistere di quella fiamma, di quella vitrea baluginante lingua rossa che arde senza pace, è la nostra Roma,  in cui a ben vedere ci siamo soltanto noi due.