sabato 11 febbraio 2012

Come la neve al Prenestino







Sei bella come la neve al Prenestino.
Un manto di purezza bianca che va coprendo il profilo altrimenti grigio e nero dei palazzi e del labirinto chiamato tangenziale, dove ogni uomo cessa di avere una dignità e diventa una transazione economica virata al degrado tra siringhe, fazzoletti insanguinati ed ossa macinate dallo scorrere cristallizzato del tempo, un fluido interscambio di taxi, autobus per deportati e perdenti, e i lavori per stazioni della metro che non saranno mai inaugurate.
Anche tu come quella neve cadi dal cielo, in concentrici cerchi stellari, con l’orizzonte tremolante di acqua piovana e le nuvole nerastre battute da un vento gelido, un vento malinconico, che sa di spezie e di povertà e che si incanala ululando tra gli androni cementificati di questi alveari di edilizia popolare, chiese casematte con le mitragliatrici e i cavalli di frisia i vigilantes e i controlli serali, ed i lampeggianti della polizia che irrorano di secrezioni ectoplasmatiche decisamente blu i marciapiedi su cui camminano in silenziosa processione casalinghe cinesi, nessuna scuola, le poche piazze giardino coltivate a cactus e peyote ed eroina, un pantheon di divinità hip hop tatuaggi scadenti e corsi professionali da carcere minorile, perché tutti sono innocenti, dicono le menti eccelse.
L’avvocato mandò in esecuzione il precetto facendo pignorare la macchina del padre del tuo migliore amico, perché non era stato pagato in termini da lui reputati soddisfacenti, l’avvocato era ed è un uomo algido, austero e unticcio, in giacca e cravatta e mocassini da stupratore, un uomo che non ha mai stretto una mano con la sola e pura intenzione di porgere un saluto, è sempre stato distante e compassato, con quegli occhi mobili insondabili da squalo, lo studio arroccato in un feudo bene dove le case hanno minimo due bagni e tre balconi o giardini curati da filippini ben poco sediziosi, uno studio lucente e spazioso con una esposizione su una villa pubblica adibita a parco, con le coppiette a cinguettarsi amore più o meno eterno – quello studio, feudo nascosto agli occhi, dove per andare bisognava prendere due bus e qualche fermata di metro, sentendosi man mano che il viaggio proseguiva stranieri in terra straniera, i vestiti inadeguati, il trucco pesante, la camminata vistosa e territoriale, un contegno lombrosianamente destinato ad essere rifiutato.
Brave casalinghe condannano, puntano il dito, mormorano commenti scandalizzati.
Contro di loro.
Come prima lo avevano fatto con te.
Le casalinghe timorate di dio che si masturbano sul cadavere di Sarah Scazzi, mentre Barbara D’Urso trasfigurata in un cono di luce da epifania caldea troneggia e secerne commenti di una bontà zuccherosa e da carie al cervello, c’è puzza di morte, di dolore, di sofferenza, lo strazio di una madre esibito nella stanza dei trofei tra un pompino da grande fratello e una discesa sulla fascia di un mediano omosessuale, le casalinghe vengono e sbrodolano liquidi dalla vagina pastrugnandosi ferocemente mentre la madre di Elisa Claps cade in tranche dopo aver troppo pianto, vengono in sincrono quando lei sviene, ed è un tripudio costellato di club privè e ville architettonicamente conformi ai precetti americani e feste private e rituali borghesi comodamente organizzati nel tepore della sera dopo una giornata spesa a rinfocolare il placido status quo.
Casalinghe occhieggiano silenziose, o ciarliere, con i cagnolini puffolosi al guinzaglio lungo, cadono stronzi di minicane che i filippini si umiliano a raccogliere, mentre le padrone proseguono nella loro infaticabile opera di moral e social bashing, chissà da dove vengono questi orrori, sputato, ecco quel che pensano, lo vedi, lo capisci, non ci vuole una laurea in antropologia per fiutare il disgusto e l’eccitante senso del nuovo dell’esotico del pericoloso che balena in quegli occhi languidi e su quei nasi rifatti, orrori lovecraftiani che sciamano neri e cattivi dalla periferia dimenticata, da quelle cronache cariche di amore e compassione dei missionari, santo cielo pensano ma allora esistono davvero.
Ogni mese di lavano la coscienza portando magliette sporche alla Caritas.
Ed ora, in questo preciso momento, vedono sconvolto l’equilibrio etologico della loro zona.
Non sanno  nulla, e proprio per questo si sentono in dovere di giudicare.
Non sanno quanto sei bella, profonda, ricca di sfumature, ma devono giudicare per evitare che qualcuno lo faccia con loro, hanno il terrore di restare sole ma ti accollano ogni frustrazione mondiale, il loro dito è un ultimatum, una condanna inappellabile, si fanno idee risibili e sociodeterministicamente orientate di anomia pur senza aver mai  letto una riga di Durkheim o Talcott-Parsons, crudo e cotto, freddo e crudele, il cielo sopra i Parioli minaccia pioggia, mentre l’avvocato riceve i suoi clienti e blandisce e utilizza un contegno da amico, l’idea commerciale che può avere dell’amico, mentre fuori le casalinghe mantenute e puttanesche continuano a macinare le tue ossa.
Hanno deciso di farti il vuoto attorno, di espungerti dal consesso sociale, forse per i tatuaggi, forse per le derive blues notturne tra neon e giardini trascolorati nel nero assoluto e per quelle direttrici psicogeografiche attraverso tutta roma che ti hanno resa così potente, pensano di potersi crogiolare in una tua presunta debolezza, ma non vedono la tua enorme forza, perché altrimenti dovrebbero ammettere a loro stesse la paura, il terrore sacro di rimanere ferme davanti alla solitudine del cosmo. Hai le spalle forti per non curarti di queste puttane, casalinghe frustrate ed emotivamente costipate, non hanno mai guardato se non per interposta persona, nella fattispecie la fica di Barbara d’Urso, il dolore, quello vero, si sono crogiolate in villaggi turistici e serate gotiche e taglietti indolori sulle braccia, dicendosi maledette e solitarie e destinate ad una sofferenza putrescente, salvo poi fuggire ogni singolo sottoscala, ogni locale fumoso e invaso di corpi sudati dove la droga diventa la bandiera dei pirati a caccia di innocenti da sacrificare, gringos e bande sudamericane e contest hip hop e graffiti vergati a testa in giù sui ponti ferroviari, la perdita, il senso di quella perdita, non sanno cosa sia, vivono giocando alla tristezza alla mestizia alla malinconia, quella malinconia urbana da ponte.
L’avvocato chiede i suoi soldi, assicura che è tutto a posto, ma non è tutto a posto, per quante lauree possa aver conseguito non può ingannare il senso di sopravvivenza e di autoconservazione di queste madri giunte da lontano, i loro figli rinchiusi ed istituzionalizzati tra domandine e mute richieste di pietà.
L’avvocato non ascolta davvero. Le orecchie deve averle sviluppate per mero senso di appartenenza al genere umano.
Né l’avvocato, né le casalinghe, né i feroci paladini della purezza underground potranno mai capire, farti la tabula rasa attorno è solo mascherare la loro debolezza, tu scendi sinuosa e bella e forte e determinata e parli, mi parli, di ciò che sei, di ciò che sei sempre stata e che sei diventata, io ascolto, a volte sorrido a volte rimango in silenzio, in trepidante muta adorazione, non sono perplesso, sono semplicemente senza parole, perché non so cosa dire, qualunque cosa io possa dire diventerebbe un sofisma inutile, un bizantinismo inadatto ed inadeguato, ti ascolto e mi rendo conto di essere vivo, nonostante attorno a noi scorrano fiumi di ipocrisia, di sofferenza, di solitudine, di pianori alcalini e fabbriche dismesse, il vapore appanna i finestrini e ti guardo negli occhi, quegli occhi così neri, così grandi, così ricettivi, quegli occhi che hanno conosciuto la tempesta e i parchi e la notte, il ventre cupo della notte, quegli occhi che mi infondono gioia e serenità, sei bella, rendi queste strade migliori nonostante a saperlo siamo solo io e te, anzi forse proprio per quello.






domenica 5 febbraio 2012

Un Padre






Un padre ha diritto di fare del male, perché un padre è tradito nella biologia e nei sentimenti e nella atavica riproduzione ferina ed animale, un padre colpisce uccide dilania e in primo luogo lo fa con se stesso senza traccia alcuna di rimorso o di compassione, un padre è spietato e draconiano e sincero e nudo davanti a se stesso, un padre taglia le sue braccia con un coltello e fa sgorgare stille di sangue quando il dolore diventa insopportabile quando eradica e travalica i consunti limiti mentali e morali della sopportazione e diviene vomito totale che spinge sull’esofago, ci penso mentre ti vedo stesa sul letto assonnata e rapita al tempo stesso da questa cruda rappresentazione del dramma paterno, la leggenda di caino e la maledizione della solitudine errabonda su una terra depopolata, non è una storia di vendetta ma di verità un padre lava sempre l’onta in primo luogo per se stesso e poi per amore filiale, c’è quella scena di raggelante crudezza in cui, con piglio sicuro e conati di rabbia e frustrazione, lui va in cucina a gettare nel secchio le ceneri della figlia morta, un pugno allo stomaco niente facile splatter consolatorio non c’è sangue ma una crudezza senza pari un coltello che possiamo sentire scavarci nell’anima e ci guardiamo come a dire questo è il limite questo è il punto di rottura il ciglio dell’abisso su cui Nietzsche e Sade si fermarono a guardare di sotto lo zabriskie point per ammirare il brodo primordiale dell’umanità negata, non è questione di odio ma di sincerità, c’era stato l’hardcore minimale e crudo di P. Schrader quella propensione calvinista al male ontologico alla miseria morale alla navigazione a vista tra neon e bordelli e larvate metafore di dannazione ma qui non c’è più nessuna metafora nessun sofisma nessun abbellimento ornamentale c’è un nome sparato in faccia alle vittime torturate macilente e fatte a pezzi c’è la pornografia e la vendetta di un padre che porta fuoco vento e disgrazia la redenzione è un volto rovesciato che guarda da dimensioni ctonie il motore invisibile che fu Kali e Arjuna e riferimenti culturali per devastare la carne possono piangere possono implorare ma lui è sordo e cieco e illuminato da questa aura rosso-iridescente che pulsa e si spande in virali volute, porta giustizia e verità e lo fa col piglio sicuro del cinico greco la lanterna avanti a sé per spingersi più a fondo nel cuore di tenebra che è la condizione umana, ognuno di noi ha la sua tenebra le sue fobie le sue idiosincrasie il suo passo incerto nella malsana palude nella mancata conoscenza e nella trepidante attesa di un evento funesto, sono città di ghiaccio ad ospitarci e te lo leggo sul volto l’ho letto ogni singola volta che ci siamo abbracciati ogni volta che ci siamo parlati o semplicemente rivolti la parola, è quella forza quella costanza che davvero rende le persone ulteriori rispetto al mare della vita è quell’oceano lautremontiano richiamato da Carmelo Bene dalla sofferenza potente e dal chiudersi a riccio contro la vita nella celebrazione della vita stessa ogni birra ogni sguardo perso sulla cresta di schiuma bianca nelle luci basse e soffuse in ogni bacio in ogni singola nota ascoltata in ogni reminiscenza di vita in ogni nichilismo lasciato a decantare ogni attimo di pausa, è giusto sentirsi stanchi e deboli a volte abbandonarsi all’abbraccio e alla protezione alla fiducia perché per troppo tempo siamo rimasti fermi a guardare la vita scorrere come il flusso del traffico perso sotto il tramonto,  a sputare sulle macchine dal cavalcavia e non era debolezza ma propensione al martirio al disossarsi a porre e porgere domande a cui nessuno, noi stessi in primis, abbiamo voluto rispondere, i viaggi senza ritorno il pollo fritto riarso a Pattaya sulla sabbia sporca e claustrofobica con la merda di ritorno, ti guardo e sei piccola e grande al tempo stesso, forte e fragile, determinata e gentile come questo padre, questo padre che semina tempesta su strade australiane, c’è una protezione che non è fallimento che non abdica alla autonomia della persona abbiamo un orgoglio simbiotico, il sonno inizia a vincere la sua battaglia e i fotogrammi compongono forme sdilinquite caotiche la violenza rimane inalterata ma il senso ora è diverso, ora che ci siamo, ora che siamo qui ed assieme, ora che quella solitudine è un ricordo un cilicio per rammentare un memento di troppe notti nomadi e passate all’ombra del nulla a cercare qualcosa che pensavamo fosse fuori di noi e che invece era qui, in questo momento.

Come perdemmo la nostra innocenza






E’ una linea discontinua tracciata con vernice nera sbilenca, a perdersi lungo la tangenziale tra guard rail scrostati e indeclinabili solitudini metropolitane, ossa macinate ossa frullate spezzate dal contenzioso esistenziale di questa deprivazione, notti di cappuccio nero e di cattiveria e di cattiverio camere di sicurezza e anomia da commissariato a rendere sommarie informazioni testimoniali, escusso come scosso come uno stregone uno sciamano potenziato dalla droga e indagato e inquisito non giudiziariamente ma esistenzialmente, inondazioni disperate di psicologia ASL e formalismo burocratico a nessuno importa davvero un problema perché un problema non è mai sociale ma individuale e nessuno ti aiuterà mai, basta con i miti del buon selvaggio ed ascoltiamo i Coil guardando il nulla della notte il verde neon della farmacia notturna e i tremori ed i tremiti ed i languori pentecostali di sofferenza e il sudore e i tatuaggi sbafati dipinti da mano incerta tra Parkinson ed aids, la trasmissione volontaria del nichilismo in cattedrali gotiche incistate nel ventre cavo di Roma dove i parchetti diventano coreografici come Auschwitz e il cielo di catrame e kleenex, locali porno e saune e massaggi e parlour e bordelli minacciati dal moralismo puntuto e pretesco e pedofili di belle speranze in partenza per Bangkok, a quante orribili inutili persone ho concesso libero accesso tenendo fuori chi davvero avrebbe meritato di entrare, a quante somatiche inconsistenze ho permesso di accompagnarmi in viaggi tra La Barbuta e San Basilio portando carichi di morte e di solitudine metallica, disperazioni anodine e isolamento alla Kerouac in angeli di desolazione la mia metaforica torretta di avvistamento ma senza satori zen senza ordalie e consuntivi con quel silenzio avanguardistico speso a rinverdire i fasti di John Cage e John Zorn notte dei cristalli e frantumate le ossa con quel fiotto di sangue e bile arteriosa e marroncina, sto morendo mi disse e stava morendo davvero con la siringa nel braccio a scurire la vena e a dare consistenza bluastra alla carne un alone in virale espansione, la bava bianca e gialla e rossa, gli occhi vacui ispessiti dal dolore e dalla malinconia dai flash della notte dai fari della macchina, ed i cazzo i cazzo i cazzo quelli terribili da autogrill e da distributore povero di benzina con le siepi istoriate di preservativi spermatici fazzoletti cornetti smozzicati e lacci emostatici e copie consunte de Il Messaggero, la situazione politica con uno stronzo di cane sopra spiattellato come una frittata di merda essiccata, sto morendo borbotta ed io lo guardo in muta contemplazione non ha bisogno di aiuto mi dico e lo dico perché sono un vigliacco non ha bisogno di aiuto perché non saprei come darglielo chi chiamare oppure, più probabile, saprei chi chiamare ma non giustificarmi davanti a dio e alla legge, così compongo il numero di emergenza e richiedo una autoambulanza mentre su strada alcune puttane volgono lo sguardo e scrutano con finta partecipazione, tra contrattazioni cocaina e sberleffi, la nostra fine, la perdita della nostra innocenza, non è modo di morire questo, tra asfalto mignotte e merda di cane, quale cazzo di epitaffio potrò mai darti, quale ragione ci ha spinti qui, e no mi dico non voglio averci niente a che fare, che il destino ci trovi sempre forti e degni il volto di Degrelle in foto bianco/nera a campeggiare su quel manifesto che ti avevo dato, segnale rituale di buon augurio quando sei andato a Londra a cercare un futuro ed ora, tragica ironia della sorte, stiamo consumando la fine, la fine ultima e abbacinante, proprio in Italia, a Roma, in una periferia eterna e cancerosa, tra palazzi a picco sul grigio e ragazzini che giocano all’hip hop tracciando tag e graffiti, la metempsicosi geografica e musicale la traslazione delle anime e l’innalzamento della soglia di dolore, ti hanno lasciato solo a nessuno è fregato un cazzo del sapere come sia cominciata e perché,  non c’è nulla di ludico nulla di ricreativo è quel vuoto da riempire che prima riempivamo con Evola e Nietzsche e che poi ha assunto altri connotati, è la pietà che ho sempre detto di non poter provare e che invece mi si manifesta nuda e splendente in questa notte di neon e lampeggianti, è la morte dell’onore, non sono una persona migliore di te, lo sappiamo entrambi ma tu stai morendo e non puoi dirmelo, stai gorgogliando bava ed io sono fermo vestito di nero e con le mani sporche di colla, la macchina con il bagagliaio mezzo aperto i rotoli di manifesti appiccicati ai sedili e le rune del tuono nella mente, cosa stiamo facendo come ci siamo arrivati come siamo giunti a questa fine ingloriosa, nemmeno Goethe quando chiedeva luce più luce sul punto di morte si sarebbe immaginato questo epilogo tra le Torri cementificate di Roma, luci di finestre irreali fortezza bastiani di solitudine, graffitari ascoltano pessimo hip hop oltre il cavalcavia e le trans gorgheggiano canzoni di laura pausini trionfi ispanici e due clienti cocainomani commentano l’ultimo libro di Fabio Volo la lettura soprattutto quella inutile ed indolore rende liberi, e tu mi stai morendo davanti, mi stai morendo a pochi passi, non muovo un muscolo quasi nemmeno respiro più, sono paralizzato, glaciale, ibernato, ho stalattiti appuntite che scavano e cesellano la carne e il fiato condensato in nuvole di vapore fa freddo ma io sento freddissimo, vorrei l’ambulanza fosse qui ed ora l’hic et nunc jungeriano di tor pagnotta le scritte murali un nuovo presente la rimembranza il funerale le braccia alzate da pochi intimi per una morte così sconveniente così tragicamente contraddittoria, finirai nel novero dei camerati che tutti discutono e che nessuno vorrà considerare un camerata, per questa fine pagheremo caro, ma tu stai pagando di più il prezzo più alto ed io continuo a ragionare in termini plurali, in termini di mio stronzo ego, di satrapiche dimensioni metropolitane, è una Roma chiusa indifferente cinica su cui svetta una luna madreperlacea candida come il cesso del distributore e gli schizzi di merda lambiscono i nostri volti tra stelle comete e morte e dolore e sofferenza e io non posso dire altro, se non che mi dispiace e mi netterò la coscienza mettendo a soqquadro le mura contendendo ai graffitari del cazzo ogni singolo centrimetro coprirò le loro tag e i loro messaggi con il mio odio con la mia morte interiore con le mie svastiche con la mia retorica, abbiamo sbagliato tutto, io forse più di te, perché tu lo capisci mentre vai abbandonandomi tra bolle di sangue e rantoli e convulsioni e mute richieste di empatica compassione, io sono fermo nel mio mondo perduto di codici di formalismi e di rituali, verrà il giorno della espulsione per indegnità e capirò di essere stato ingannato da me stesso, di aver tradito la parte più importante del mio essere, ti dedicherò questa scritta mentre l’autoambulanza non potrà che constatare il decesso e ripartire vuota nell’attesa cupa e lancinante dell’arrivo della polizia.

mercoledì 1 febbraio 2012

In questa Roma





Non c’è neve in questa Roma, non ci sono apparentemente che luci e ferite e cicatrici e alberghi da poco prezzo e treni che sferragliano verso il nord, verso una meta improvvisata lanciata a velocità tale da rasentare l’accelerazione bianca crudele estatica, quel picco montano di cemento abbarbicato sulla tangenziale e sulla geometria euclidea della droga, capannelli di marocchini e di pakistani e globalizzazione dello spaccio ragazzine piangenti una dose un pompino due dosi una scopata dolorosa nel culo  glabro e virginale di liceale poco poco uscita da I Cesaroni e dai libri della Pijola, discoteche per minorenni e pedofili pingui rattristati e razzisti, non c’è neve né speranza, un vento pieno di fumo carico di escrescenze tumorali e di peep show con quelle sagome tra lo scalo di san lorenzo e porta maggiore e la casilina e le luci arancioni e le comitive di punkabbestia che negano dio e la famiglia e si drogano coi cani fumando calumet della insipienza sociale e barcollando poi tra fontanelle sfasciate acque nere e pioggia, pioggia di piombo grigia densa e macchine che li evitano per miracolo, non c’è neve oggi, non c’è stata ieri, mentre il treno sferraglia sinuoso e pedante rallentando la sua corsa triste, il mio sguardo perplesso il mio viso incorniciato dal cappuccio nero gli occhi spenti e desolati dopo un viaggio lungo riflessi carnicini e purpurei e poi neri di questo finestrino opaco lercio sporco sudicio, compagni di viaggio non umani, compagni di viaggio borghesi senza la metastasi della malinconia senza orizzonti da frullare nel sordo gorgogliare della motrice binari sedimentati tra paesaggi urbani porti cieli e foreste e mondi a picco sul cuore, cantano di carlo giuliani e ci fanno film e spari e canzoni colorite e colorate e buchi sulle braccia e la nientificazione totale abbacinante lo sguardo vorace e cieco, compagni di viaggio logorroici e io chiuso nel mio mutismo isolazionista e socialmente deprivato con le cuffiette a scavare solchi sonori nel mio cervello chiuso in me stesso chiuso nella memoria chiuso in ciò che temporaneamente ho  lasciato e che presto ritroverò, e loro pontificano ciacolano uggiolano come cani battuti presi al guinzaglio e all’amo da una vita di anomia borbottante e bestemmiante, sequenza feroce di disfunzioni, quei mostri che ballonzolano draculeschi nel cuore di ognuno di noi ma che alcuni si ostinano a lasciar fermentare, punkabbestia chiedono l’elemosina da spendere poi in pessima birra e in altrettanto pessimi concerti da centro sociale, giardinetti curati con estasi e siringhe, trasfusioni di aids sotto lo sguardo sereno del cielo di roma, questo cielo senza neve ma con tanto vento e con quell’odore fumante di pollo arrosto e di maestà, gretta, insolente, insensibile, la città è chiusa come sono chiuso io, mi rivolgono la parola sperando in feedback apprezzabili ma non ho tempo da dedicare alla conversazione, sono in contemplazione del mio volto, guardo gli occhi nelle iridi nelle pupille nel nero che vortica e si arriccia e gorgoglia come un canto di maldoror mentre fuori i graffiti dell’ostiense e del testaccio e le mura franate e mai sanate e il dolore mai rimarginato scorrono fusi tra loro in una grandguignolesca parafernalia processione di strazi e di rimembranze cimiteriali, mi sono dovuto allontanare e perdere tutto per ritrovarmi, per ritrovare il sapore di queste ricerche di queste esplorazioni, we found love in a hopeless place, attraversando le terre di confine il settentrione del nostro incontro tra la neve a passo lento con il fiato a condensarsi in nuvole di vapore e fuori il grigio ed il bianco e un sole pallido lunare smunto a riflettersi sui tetti morti delle cascine alberi scheletrici altrettanto grigi e una linea di terra e cielo tutta agghindata di niente, un silenzio irreale nonostante stiano parlando, e il treno scorre e si disperde lungo la campagna, sempre più giù, sempre più lontano, c’è sempre un motivo quando ti guardano dentro senza sapere chi sei, da dove vieni, e per quale motivo ti sposti sui segmenti di acciaio elettrificati,  c’è il motivo del morboso moralismo, il considerarti personaggio e persona non grata, l’asfissiarti di domande stronze e di risposte che essi stessi formulano senza attendere che tu apra bocca, se mai la aprirai, non è contegno zen, né misantropia, o timidezza, è solo sonno, sonno e poca voglia di condividere te stesso con queste nullità, le parole andrebbero centellinate e riservate a chi le merita, non sparse a profusione in uno slancio di ecumenica condivisione, le vostre disfunzioni stronze non sono le mie, le vostre paranoie plastificate debitamente e con tanto di formale timbro di oscurità non mi appartengono, guardo in maniera obligua e sbadiglio, nel loro  tragico tentativo di sorprendermi di scioccarmi di provocarmi io non faccio che ululare di sonno e di stanchezza e di malinconia, agevolare la vostra crescita individuale non appartiene alla mia ragione sociale, continuate pure a nascondere i vostri scheletri nel mio armadio e a sentirvi liberi e migliori per questo, non ve lo impedirò perché in fondo sono buono, di quel genere di bontà che un giorno uccide, e state là in silenziosa ammirazione con gli occhi trasognanti della luce di barbara d’urso sperma divino catodico reiterato nel samsara del gossip e della cronaca nera, una pessima equazione non risolve enigmi antropologici, troppi cani hanno pisciato sulle vostre scarpe troppi gatti hanno finto amore e passione per i vostri croccantini, sono una persona migliore dell’ologramma che avete formulato con l’assennato giudizio della sbronza serale del vostro incedere scontato di gossip underground, questi viaggi portano al golgotha crociuncinato alla rivelazione ultima di treni sfrigolanti e vapori terrosi e neve sciolta e la bufera e il vento glaciale, a guardare di fuori, il sibilo e la furia degli elementi, in questa Roma non ci sono che dimensioni spaziotemporali alterate e discontinue e parate egotiche sbraitate nel nome di un grado sempre maggiore di solitudine, non c’è che carta, non c’è che cartone, conglomerati di barboni e di carità pretesca e di barbieri etiopi dalle forbici oleose di psoriasi, c’è un personaggio in fondo al tunnel, la proiezione di chi non sa nulla ma semplifica nel nome delle convenienze, questo non è un gioco, non lo è più, è un incontro, una epifania, una redenzione, una catarsi, è il volto rovesciato e meraviglioso di noi stessi, la negazione della negazione, l’ultima presenza in cui si giunge a consistere di quella fiamma, di quella vitrea baluginante lingua rossa che arde senza pace, è la nostra Roma,  in cui a ben vedere ci siamo soltanto noi due.