sabato 21 gennaio 2012

Dalle finestre in fiamme



Ti guardo e vorrei dirti ciò che nessun libro ha mai detto, ho nel cuore una pira incendiata di Norimberga e un Heidegger intento a bruciare saggi, ho un vortice carnicino roteante come la svastica primaverile vista cadere nell’ultimo rogo berlinese, la neve di Stalingrado e la morte glaciale la carne che diventa roccia e muta consistenza e il dolore irrorato arancione ad intermittenza sulla circonvallazione casilina dove siamo fermi a parlare, attorno chiazze di vernice e degrado metropolitano e immigrazione aggressiva e studenti fuorisede che sperimentano notturne epifanie deportandosi sui bus notturni in compagnia di esotici rom balcanici di ritorno dalla ricettazione di motori, continuo a guardarti ma ho troppi libri non ancora bruciati nel cervello carbonella esistenziale nella mente incrostazioni suppurate da Pigneto by night, il nero fumigoso della prenestina che scorre parallela alla vita è un oceano vecchio e decrepito lautremont in nave pronto al naufragio senza speranza ho una confessione di più una processione di intenzioni e di narrazioni e di vividi ricordi, non lo dici ancora ma lo capisco da quegli occhi, da quel nero che sovrasta i bargigli siderali del cielo, li osservo e li scruto e li colgo nell’atto di aprirsi a raggio sul mondo, hanno contemplato paradisi di carne e giardini di disperazione alchemica consumati anni prima nella introspezione assoluta, dolorosa, totalizzante, tutto quel che ho dentro non porta numero di pagine non può essere espresso da altra lingua all’infuori dell’urlo insensato, quanta gente abbiamo visto consumata ed erosa e portata via dalla storia quanti condannati quanti viaggi senza ritorno quante speranze vane cioranianamente schiantate quanti abissi stoici di suicidio assistito, i martiri da piangere agli incroci con la siringa nel braccio e le scelte sbagliate non fatte ma da cui si è stati fatti, rimango silenzioso, muto, non è da me, non è dal me che gli altri credono di conoscere e padroneggiare quasi esistesse un copyright giuridicamente apprezzabile una eterodirezione da burattini di anima e non-vita, così diversi e così simili, non uguali perché l’uguaglianza è morte, siamo l’ultima thule l’estremo rifugio della ricchezza e della serenità, c’è ancora speranza dicono gli stronzi quelli che muoiono nelle loro case borghesi di duecento metri quadri senza aver mai sperimentato la gioia pazza della lotta, non c’è nessuna speranza porco dio ma solo volontà, la volontà del ferro e del marmo, ci siamo distrutti ma poi ricomposti e dai frammenti è nata una foresta, come sperimentare una fusione, una dichiarazione, un atto di fede, mentre attorno macchine senza assicurazione parcheggiano davanti ristoranti indiani e la musica bassa sinuosa e potente di bassi slabbrati si propaga nella notte, Roma fa schifo ed è bellissima persino vista da qui, dall’abitacolo accaldato e appannato di questa macchina, le luci le stelle i fari alogeni le insegne neon le puttane i controlli di polizia il sudore le lacrime la degenerata rapidità della consapevolezza, è tutto vero, tutto qui, tutto a portata di mano, in un abbraccio che dura secoli, un abbraccio che è la certezza di un ritorno, dicono di capirti ma stanno pancia all’aria a farsi seghe con la loro presunta personalità, col cartone e le considerazioni sceme, la connessione internet sfasciata e i tentativi artistici per lenire inadeguatezze sociali e psichiche, non capiscono nulla, figuriamoci gli altri come se l’arte fosse xanax, ansiolitici creativi da deportare nel modo più feroce, ci siamo lasciati alle spalle quel dolore quella sensazione di nullificazione quell’ansia sofferta e crudele quel getto di vomito nero inchiostro e sangue e lacerazioni sulla pelle e nella mente, il fumo smette di alzarsi e di andare via nel vento, le finestre smettono di ululare, la morte sarebbe rimanere in questa stanza a guardare il fuoco divampare e col caldo asfissiante a sciogliere la carne e il non poter più attendere e doversi gettare dalle finestre in fiamme, come se non ci fosse alternativa, come non ci fosse un domani, siamo noi due e mi parli con una disarmante purezza, con quel tono gentile e forte, di poesia e marmo bianco, con quegli occhi ricettivi e mobili e vischiosi che vorrebbero inglobare e fondere e metabolizzare l’esistenza tutta, perché hanno visto tanto e sofferto e vissuto e percorso strade notturne e labirinti e vie senza uscita però con una palizzata da scavalcare, le ginocchia sbucciate per le fughe repentine le ritirate strategiche, quel profumo di saggezza di strada, mi dici quanto di splendido e di nero hai nel tuo cuore, ed io ascolto, come un penitente accoratamente proteso a vivere, con te, e se cristo è risorto perché non possiamo farlo pure noi, anzi lo abbiamo già fatto, e siamo qui a parlarne, noi due.

Il Mondo che abbiamo perso



Barcolla come l’ultimo uomo rimasto sulla terra, nel volo sincopato di uno pterodattilo di acciaio trasfuso in nuvole ed aloni bianchi di fumo, la luna di tre quarti madreperlacea insondabile incupita e virale pozza d’argento sporcata guarda da sopra benedicendo i lampeggianti blu e la merda grondante dalle caditoie e le foglie e le buche che spezzano l’asfalto, lo segmentano in una ragnatela di ipotenuse di responsabilità civile con i vecchi caduti a faccia in giù, devastati da radici di pino e dall’incuria dell’amministrazione, barcolla solo e macilento con gli occhi viola le vene ispessite le braccia bucate e le croste e l’aroma olezzante di piscio e strada nomadica e una linea povera anomica di camper malamente parcheggiati, storie di famiglie infrante da mutui troppo esosi, non ci sono strepiti sociali urla bestemmiando i porco dio a ritmo di rap se il rap fosse una cosa da bianchi, ma lui è un bianco, sporco e negro come tutti i poveri senza prospettiva e senza futuro, se la merda avesse un valore i poveri nascerebbero senza buco del culo, perché si chiede perché non posso avere una vita socialmente irreprensibile come tutti questi borghesi che mi sfuggono e che mi passano accanto ed oltre guardandomi con reverenziale timore, il contagio la peste nera la scabbia l’epatite il cazzo dei preti, non hanno mai succhiato il cazzo rugoso e spugnoso di un prete, quell’affare moscio che non si drizza mai e che ti tiene occupato nelle fredde notti d’inverno quando piangi e smozzichi parole di pietà e di misericordia ma nonostante tutto la croce ti viene ficcata nel culo, dritta sparata senza riguardi vaselina od omelie, c’è solo disgusto nausea senso di impotenza perché questo scarafaggio in nero che tante chiacchiere fa di amore e di solidarietà universale perché questo apologeta del vangelo e delle sofferenze di nostro signore impone la sua personale redenzione di sangue e sperma al mio culo brufoloso e sporco, perché, ed è un perché che punteggia e drappeggia il suo sinuoso avanzare nel folto del parchetto tra le giostre istoriate di graffiti e di siringhe appese con sapido gusto scenografico, la vita non rende il conto anche a chi se lo meriterebbe, ed oscilla alieno a se stesso tatuato nel profondo dell’anima il dramma sofocleo dell’eterna partenza, non ci sono luci che non siano blu, non ci sono frasi che non siano di circostanza o da verbale di polizia giudiziaria, le segnalazioni al prefetto, i primi ritiri della patente, i test del sangue, le precarie condizioni di salute, il senso di languore di torpore di sconfitta nel ventre cupo dell’esistenza, non c’è rigore pensa, non c’è controllo, ho smesso di dirmi umano ed è successo, in quei momenti di tragica lucidità quando un dio mistico e rovesciato si para davanti agli occhi e chiede il conto ma solo a lui solo a quei tanti sfuggiti al Minotauro nel labirinto, nessuna seconda chance, ma dove cazzo sta la prima, non occasioni né pieghe esistenziali dentro cui rifugiarsi come morbida placenta materna, già della madre conserva un ricordo vago illanguidito da anni di alcolici droga e psicofarmaci latenti ospedalizzazioni il grigio cementizio di palizzate nascita della clinica separazione sessuale ed esistenziale e manie urgenti potenti che crescono e la cui eco si intaglia al pari di legno sballottato  nell’ultima tempesta, il padre non lo ha mai visto fermo al secondo piano metaforico di una casa popolare con l’umidità a castrare le pareti ammuffite e la pelle a generare malattie cutanee e respiratorie gli escrementi di topo e le prese in giro dei compagni di scuola c’è sempre un signore delle mosche nel cuore di topolino pensava disney quando votava  Hitler c’è sempre una muta richiesta di inverni da trascorrere a Dachau mentre la neve imbianca i comignoli fruttuosi e le scritte lapidarie e la scia immota di piedi nudi nel deserto bianco ritirata delle buone intenzioni come la condizione del tossico e del deportato nella limitata consistenza dei propri orizzonti con quella palizzata crociuncinata sotto il ponte della Tangenziale ed i panzer abbarbicati all’estremo gesto di difesa to drown a rose la wiking a berlino e il vino tedesco tutti a berne un sorso un sogno una trasparente traslucida disamina onirica di disfunzioni sociali, la risposta era nell’amore avrebbe dovuto dire il prete se non fosse stato impegnato nella sodomia il girone dei lussuriosi e la fiamma e la merda ed un castello sadiano di Silling dove Ignazio di Loyola ha ricevuto i gradi e dove la valenza fondante della claustrale limitazione delle prospettive ha impostato lo sviluppo di imperi, Alessandro pianse guardando i suoi dominii la fine oltre le montagne sacre ma solo perché non sapeva non vedeva non voleva vedere che la risposta più vera sofferta e gentile era nell’amore, è un uomo che barcolla distrutto che porta una croce nelle vene nei solchi e nello sguardo perso morto dicono che i deportati abbiano avuto lo sguardo azzerato il fiato condensato in un vapore di morte niente più sudore né battito cardiaco cortocircuitazione delle preoccupazioni alienazione benevolenza se questo è un uomo se questo è un tossico la dose lo  avvilisce lo  piega meglio regnare all’inferno, il vostro dio giudeo non mi avrà borbotta infastidendo una coppietta sorpresa nel farsi le canne, guardo questo uomo con occhi diversi, un vecchio me, un me andato, rovesciato, poco incupito ma molto ben disposto nei confronti della mera osservazione, mi astraggo simile a Mondrian ellittico e rosacrociano impostando quesiti abissali con le spalle ad un orizzonte di libri, il sangue, quanto ne scorre, seguo l’uomo uno stalker antropologico e disilluso, triste ma felice per via di quelle risposte che solo uno scalpello nella carne può dare, tutti i tossici sono in fondo ad un inferno in cui ogni istante è una eternità condannata a ripetersi il mantra dei buchi, delle vene infrante,dei diamanti ciechi risorti dopo una maledizione boreale che inonda di porpora le frattaglie del cielo, vorrei avere una parola di conforto ma nessuno ti può dare una mano, amico mio, amico di battaglie mai combattute non assieme di certo, sconfitto eroe di ogni conflitto interiore psichiatria e degrado sociale e periferie addormentate su loro stesse, questo è un posto dove non vivo più, un posto che scorre malevolo come un fiume di merda nella stagione delle inondazioni, una certa tendenza asistematica alla valutazione ecumenica una impostazione discendente di ipotesi ed opportunità, meriti di meglio ma non potrò essere io ad offrire la riparazione ai torti, distruggi tutto senza aver più pietà né commiserazione, distruggi per la pace interiore.





domenica 15 gennaio 2012

NERO





Inoperoso ed inattivo barcollo verso una privazione ancora maggiore, dicendomi che l’unica vera salvezza è la compulsiva tendenza alla comprensione, come cinico penitente e sadhu rinunciante con le carni chiazzate e arrostite di un cadavere sullo smashan pire funerarie accese di fuochi rossi a picco sullo scorrere muto del Gange ma qui siamo a Via Ostiense mentre l’elettricità sinuosa della Louisiana gorgoglia un sorriso muto, accampamenti massicci di zingari e centri sociali e la prefettura grigia di un grigio assoluto con gli uffici stretti pertugi di anomia lavorativa, sei un fallito dico stridente e incattivito dallo spettacolo new age sei un fallito un miserabile un profittatore nemico del degrado e lui mi guarda prima con pietà, quella pietà che si accorda agli sbronzi e ai traditori della patria, poi con crescente fastidio, invece le ragazze insalamate disfunzionali e stupide e naturalmente ciccione, ragazze che cercano redenzione nella sublimazione perché nessuno ficcherebbe mai un cazzo tra le loro ballonzolanti pieghe sudate, prendono le difese del loro padrone e maestro e guru supremo emettendo sibili da pipistrello obeso, voi potete anche succhiarmi il cazzo ma solo in metafora, bofonchio, solo in metafora capito? perché per quanto insulso e degradato io sia le vostre bocche sporche di panna e pop corn mi fanno cagare, preferirei farmi spompinare da un camionista cingalese con l’eczema e il vaiolo sulle labbra, il padrone capo il bondager dall’aspetto minchione non può credere alle sue orecchie, naturalmente sporche naturalmente impermeabili all’intelligenza, c’è liberazione sovrastrutturale in questi aghi ipodermici conficcati in queste elucubrazioni da studente fuori sede con psicologo a carico della mutua e i libri sbagliati, leggi troppi libri come dice mio padre leggi troppi libri sbagliati, la sofferenza è sofferenza non ci girare attorno, soffriamo tutti assieme, dandoci pugni calci, vorrei essere muto certe volte, non per paura delle conseguenze ma per timore della dialettica, il tragico e fatale errore di accettare un dialogo coi casi umani, troppi drinks eh fa lui tentandola sullo spiritoso ma la puzza della sua pancia e lo sguardo morto dei suoi occhi e le arpie alle sue spalle ancora mezze legate ancora sudatissime e puzzolenti come un carico di balene andate a male mi fanno capire che non c’è possibilità di ironia, di sarcasmo, la provocazione è roba per froci, la provocazione va bene se sei Fabio Volo ed ok diciamolo ammettiamolo porco dio prendi quel microfono e riempi questa stanza sporca e rossiccia e affollata di miserie antropologiche dillo a tutti cosa sei quali inadeguatezze ti portano a far finta di ascoltare drone a comprare cd senza nemmeno scartarli a piangere chiuso in cameretta ad ascoltare Tiziano Ferro drone per essere tendenzialmente appetibile dillo a tutti cosa te ne fai del bondage e di questa professione, non potevi laurearti come tutti in scienze della comunicazione e rimanere disoccupato o spacciare droga? sarebbe stato meglio, sarebbe stato più vero e sincero e genuino del sentirti elargire stronzate di coccole sotto forma di sadismo, sono l’ultimo rimasto del mio plotone perché gli altri capita l’antifona se ne stanno a bere al banco di alabastro c’è sempre un banco di alabastro quando sei ad un passo dal tracollo vorrei vomitare piangere e suicidarlo suicidarlo come una epitome di lardo e puzza sono l’epigrafe di me stesso un sepolcro imbiancato ma non di cocaina se vado nei bagni tutti inalano qualcosa fanno inalazioni di scorreggia e droga qualunque droga perché stanno ancora fermi a Timothy Leary e Spiral Tribe e a simili facezie non nichilistiche, ma io vi darei gli Avvicinamenti di Junger comprensivi di bombe a mano corpo a corpo e diarrea da trincea quel sentimento immoto che ti sconvolge lo stomaco mentre la pioggia batte forte e tutto attorno è solo nebbia, è solo negazione della vita e scoppiano colpi d’artiglieria, la morte è un cadavere crivellato non un viaggio di acidi in california, prendetevi il pacchetto completo se volete essere coerenti, io muoio muoio ogni sera ogni volta che mi trovo vicino a queste merdosità complessità non lineari questi palazzi bassi e cupi rovinati dalla solita fila di avventori di esteti del degrado di quello plastico finto poco poco sporcato dalla cacca secca, vorrei un gorgo nero un gorgo caotico di morte una resa dei conti un ragnarok senza cavalcate e senza napalm, certi odori sono buoni ma quello della stupidità non lo è mai, Charles Gatewood si sta rivoltanto nella tomba anche se non è ancora morto, tu uccidi quell’uomo come disse il giudice al  boia il giorno dell’esecuzione di Peter Kurten, non avrai una pensione facendo bondage ma potrai rimediare quella umana compassione che il mio nichilismo ti ha sempre negato, chi credi di essere mi domandi con voce sozza ed insolente quella voce per cui una volta ci si sfidava a duello lasciandosi belle pacche cicatrizzate in faccia, al professore di diritto commerciale lo dissi la conoscenza senza cicatrici è solo rumore ma quello fece spallucce e tornò ad illustrarmi l’ammortamento, l’ammortamento che nella sua estensione planimetrica giuridica è una morte, una congiura, un pugnale per espungere e disossare, ma lui queste cose non ce le vedeva ce le vedevo solo io, ad aprire il manuale e leggerci dentro di fondamentali cadute verticali persino sulle cambiali, tu sei un bondager ammortato, inutile, indispettito, leso nella sua residua dignità, nel suo orgoglio evidentemente sovrappeso, ma cosa ti ho mai fatto, esisti, ecco cosa mi hai fatto, esisti e produci stupidità, io, continuo, io sono sempre felice quando sono in compagnia di me stesso, quando penso alla madre di Aiko Koo e alle lezioni di danza già pagate nessuno dovrebbe pagare lezioni di danza in anticipo se in giro c’è Edmund Kemper, la morte per tortura, quella cazzo di testa asiatica decapitata sul cruscotto guidando attraverso il confine come suprema sfida, dai fallo, gli dico, fallo anche tu, andiamo tutti a morire da qualche parte come sfida come ordalia come giudizio di dio, non dirmi che hai letto Nietzsche perché altrimenti non staresti qui a proporre nodi giapponesi e a spacciarti per sensei una ipotetica ricontestualizzazione di Karate Kid sadomaso, la madre di Aiko Koo e quella di Elisa Claps e quella di Silvestro delle Cave redigo meticolose classifiche del dolore hit-parade dello strazio familiare, chi impazzisce prima chi impazzisce meglio chi impazzisce in maniera totale ed abbacinante una visione che chiarifica il senso dell’esistenza, cerco un dolore che è anche il mio, ma tu non puoi capirlo maledetto ciccione vomitato fuori da un cerbero senza microchip.


Seppellite il mio cuore a Via dell' Archeologia





Tutti combattono, come questo bus sferragliante che si adagia sull’asfalto divelto della Casilina, un segmento putrescente di intersezioni casolari diroccati e brughiera ocra, arsa dalla calura e dall’abusivismo, combattono contro un destino segnato dalla disperazione e dalla desolazione e dalle gare con le autovetture coi motori truccati, sfasciacarrozze in eternit e lastroni di marmo impantanati nella palude della morte mostri fetidi con la scabbia e una psicogeografia che digrada come un monte dei pegni, un golgotha di aspirazioni bruciate, combattono e sono combattuti, proprietà transitiva tra zarathustra e graffiti ma senza l’aura redimente di Bansky perché qui non ci sono i soldi, non c’è la dignità, non c’è la fica della Jolie, i vernissage e i finti cappucci di felpe firmate, Damien Hirst raccoglie squali sotto formalina e imbastisce costruzioni semantiche precise di dollari e dobloni, Milo Sacchi rinvigorisce la dimensione mortuaria della scultura di carne in piena contrizione di adipe frollato e gatti e cani scuoiati sollevati dai lembi cementizi delle periferie umane e li appende trafitti al soffitto mentre  il rumore si spande virale pieno e potente come una mareggiata di petrolio,  ma qui nessuno fa niente, non c’è senso, non c’è giustificazione, il cielo è grigio come una radiografia screziata di fumi e volute sinuose di pneumatici bruciati, fiamme vitree troneggianti sugli orrori della geografia romana, il traffico scorre a precipizio inondando di metallo il ventre sordido della nostra vita, guardo la battaglia la lotta disperata e ancora si evince quel senso profondo di perdita quelle macerie sovrastate sormontate dalla metaforica bandiera rossa mentre i pirati con la runa del tuono tutto sotto lanciano gli ultimi colpi e muoiono all’arma bianca perché, davvero, poco importa di chi verrà dopo, si lotta casa per casa, panzerfaust ed eroina e volti emaciati di puttane che barcollano nella luminescenza ambra di non-vita porno zombie e pendolari tra T-34 e Tigre e lamiere fuse con l’arte e la musica e le balle sulle espressioni di periferia parchi con le giostre sporche e spezzate ed infrante, come l’insondabile abisso delle nostre mute richieste, ragazzini e tossici a guardarsi persi nei loro rispettivi mondi, la felicità di un volto sporco, l’inconsistenza vitale a stringersi in confortevoli illusioni, filiali o chimiche, e combattono con vigore tra lampeggianti ed escrescenze e malattie e ricoveri e crisi mistiche ed epocali con quegli scenari sadiani di jihad psicomorfa e psicotropa, c’è solo sabbia tra queste mani callose, queste mani che tra stronzi di cane e merendine mangiucchiate e siringhe guardano il vento portarsi via granelli ed esistenze, una deriva notturna di sillabe monocromatiche la poesia del disagio e un degrado di ritorno mentre si vomita a turno in una olimpiade esiziale alle due di notte, queste sagome questi spettri da cappuccio in testa abbrutiti niente castelli alsaziani per loro niente evocazioni niente magia del Caos niente Zoos sulla Prenestina solo caimani tossicodipendenti da guardia e piantagioni di marijuana e motori rubati, c’è un’arte sublime in questa cacca di cane sparsa a chiazza sullo scivolo, proprio tra due casematte di legno marcito dentro cui i bambini del quartiere vengono a contendere la solitudine ai tossici barcollanti, questa periferia è un  pugno chiuso dentro il culo stretto dell’amministrazione, scorre tutto veloce frullato in una minestra di dolore e di pensieri cupi, un macellaio combatte contro un monaco, campi di morte e cattedrali di nichilismo e preti di frontiera che hanno una parola di conforto per le mamme zingare mentre si fanno spompinare dai loro pargoli e l’integrazione sociale e i manifesti abusivi e gli impianti ed i rave e le piazzole di sosta e le sirene svogliate della polizia, tutti fanno finta di adempiere una funzione, negri, immigrati, spacciatori, non ce la faccio più, dicono, dicono con poca convinzione perché per molti è solo una recita, un pessimo film, una risorsa multirazziale un bacio sulla bocca morente, e la pustola suppura in un rivolo di sangue, vedi le vene incrostate e gli aghi diventati di catrame viola a furia di essere conficcati nelle braccia e nelle gambe e sul collo, gemellaggio con lo Zoo di Berlino e con Zurigo e con le crack-houses americane Centocelle Skid Row un pianto di barboni fetidi e con le barbe sfatte e la morte sulle sopracciglia, c’è un Hitler morente senza Bunker tra queste aiuole curate dal Sindaco in persona durante i suoi comizi togliete questa merda togliete questa anima togliete questo ammasso di umanità che infastidisce che insolentisce perché il Sindaco è buono, magnanimo e non vive qui, combattono con le bandiere nere issate sui pennoni dei garage trasformati in uffici clandestini per l’assegnazione delle case occupate e uno ha proprio i faldoni gialli con i numeri di protocollo e che ti serve, domanda, sei uno sbirro, io e te tre metri sopra la paranoia, ride borbotta scatarra è un ras di quartiere un tragico residuato di tempi irsuti e canini e ferini, di branco, di banda, di batteria,  rapine e droga e 648 e un corollario di assalti a portavalori e una madre morta mentre era in galera manco il permesso per andare al funerale, lui combatte non per soldi non per nulla ma solo per odio per mancato finalismo rieducativo, chi si spezza la schiena combatte contro tutto mulini a vento privi di copertura assicurativa, l’Hitler morente guarda tutto con cupa accondiscendenza, è solo, privo di difese, di affetti, un titano affetto da malinconia e da mari di nebbia scruta la sagoma dispersa delle torri dei palazzi di edilizia anti-umana, qualcuno ce la fa, qualcuno vince, un leone morto elevatosi sopra tutto che dismette il cappuccio e vive e ama e si allontana senza rinnegare, le scritte sulle mura aureliane e l’aventino e san saba senza quella tracotante supponenza, accampamenti nomadi e derive pagane ed altari sacrileghi, qualcuno la sua battaglia l’ha vinta, ci parlo guardando fuori il nulla quelle macerie fumanti il reichstag sulla Togliatti dove balordi e centro carni e polizia stradale e comitive mongole barcollano nella totale mancanza di un equilibrio istituzionale, a ciascuno il suo nella reminiscenza e parla con tono fermo, deciso e malinconico, profondo, c’è la consapevolezza dell’enorme forza, quel senso titanico da terra del tramonto nonostante i tramonti su Roma siano di sangue e abbacchio, girare vagare senza vedere nulla e poi accorgersi che il primo approdo è dentro se stessi, con quel senso caldo ed epifanico di stella cometa sdilinquita verso la linea d’orizzonte a cadere tra case occupate e parchi e giardini e parcheggi di scambio, vita-non-vita un colossale inganno diventato ratio vitale che nega la vita nel momento in cui se la trova davanti, pochi hanno vinto e saranno banditi dalla storia e rinnegati e cancellati ma saranno sempre vivi e trionfanti in questo nostro cuore, e lei ce l’ha fatta, lei sta lì a parlare di un mondo ctonio abbattuto sotto il maglio tellurico dell’inverno avanzante, l’inverno dello scontento universale, saremo tutti processati a Norimberga a rendere conto delle nostre domande ma almeno ci saremo divertiti e quando ci indicherete con dito accusatorio borghese mellifluo e merdoso vi diremo ridendo “avete sbagliato ad andare a dormire presto”.

venerdì 6 gennaio 2012

WHOREMONGER





Gesù, ma no Gesù non c’entra niente, come puoi anche solo lontanamente pensare di invocare il nome del nostro salvatore e redentore, di ictus sotèr (non Mulè, of course, anche se ci troviamo nello stesso Municipio adesso) in questa maldida favela di motorini rubati, antidepressivi e baracche di fanghiglia e materiali di risulta, abbiamo tutti una menzogna pronta all’uso, ma adesso aiutami ad insabbiare questo stronzo di cane, questa cacca sbrindellata con gli intestini di fuori per non rispondere del drammatico capo d’imputazione di omissione di soccorso ad animale, io pirata della strada io genocida di ricci, la tangenziale con nomi presidenziali l’abbiamo lasciata alle spalle e ci siamo rifugiati in questo piazzale industriale sormontato dal profilo grigio della fabbrica, capannone mi correggi mentre raschio via gli occhi  dal pneumatico, non ci vede nessuno, d’altronde a parte sfuggenti clienti di trans e di mignotte slave con le tette generosamente esibite chi mai potrebbe sorprenderci, non abbiamo una telecamera per far impazzire youtube, ma saremmo comunque surclassati da artisti olandesi e da Milo Sacchi e da ragazzini chicanos che fanno le smorfie da duri mentre sminuzzano cuccioli paffutelli, o come cazzo si fa come come cazzo si fa, avrei voglia di un panino, andiamo sulla Tiburtina dopo, dico, e lui contrito e quasi alle lacrime continua a farfugliare gesù come fosse un mantra di autoconsapevolezza, stai calmo la satori zen non la raggiungi qui, piuttosto vatti a fare una scopata con quella minorenne scosciata pago io, offro perché devo toglierti dai coglioni e questo non lo sto pensando ma proprio dicendo, sei un infame mi dice, ma accetta i soldi e va ad infrattarsi con la moretta quindicenne, così almeno pure lui avrà sulla coscienza un reato, diventerà uno pseudo-pedofilo per qualche minuto, mentre lei gli regge il cazzo in mano e nasconde i soldi nella borsetta finto-Gucci, almeno le bianche non puzzano sono discretamente pulite e presentabili, alcune persino molto carine, non perderci la testa non sposartela urlacchio divertito come non mai, mi diverto con poco, e quel poco è sempre un abominio, pedofilo di merda lo sento dire massacratore di cagnolini indifesi, cagnolini borbotto merda sulla ruota piuttosto che colpa ne ho io se questa strada è una palude nera, priva delle più elementari forme di illuminazione, ecco quel che succede quando ci allontaniamo dalla Stazione Termini, ma non può più sentirmi perché sta contrattando là da qualche parte nell’oscurità con la troia, poi si eclissano definitivamente, attorno a me solo il cancello del capannone e delle baracchette zingare spente e morte, forse abbandonate, questo è un posto di paura, dovrei avere paura, ma ora sono sporco stanco e sudato, ho un cane da buttare al cesso e tanto sonno, sento le palpebre chiudersi lentamente, un fazzoletto bianco ridotto a cencio rossino con i resti filamentosi delle budella pelo che puzza e santoddio quanto quanto durerà questa storia, penso ai miei soldi il danno oltre la beffa anzi la beffa oltre il porco dio, la carcassa è franata in una pozza di catrame e sudore per la gioia degli animalisti darò degna sepoltura in questo cimitero di rumeni e di albanesi lavoratori indefessi ed altrettanto indefessi stupratori sbronzi, proprio mentre sto principiando un gorgoglio roco di stomaco ecco la donna apparirmi davanti, è mezza nuda coperta di terra e fanghiglia e puzza di natura selvaggia come una grizzly woman rimasta muta e viva, chi sei fiammetta cicogna, penso tra me e me, ma più probabile tu sia una barbona stuprata, la donna sta ferma silenziosa e guarda verso di me, devo avere un aspetto orribile piegato in avanti con le mani nello squarcio del povero cane diventato parte integrante della meccanica della mia macchina, lei certo non eccelle per contegno raffinato e per aspetto aristocratico, non avrei dovuto mandare quel coglione a scopare, e adesso?, adesso è un lungo istante ininterrotto, i suoi lineamenti sono nascosti dalla pesante consistenza della notte, mentre io sono irrorato dai fari della mia stessa autovettura e sono nudo nudo a me stesso con la vergogna insensata del cane ammazzato, aiutami, dice, ha una voce irreale, spettrale, spezzata da un dolore così intenso e profondo che posso quasi percepirlo, aiutami, aiutarla è un concetto pernicioso e pericoloso e se quello stronzo si fosse già fatto svuotare i coglioni dalla troietta minorenne ecco avrei qualche chance maggiore di essere d’aiuto, piegato sulle ginocchia la guardo e sto zitto, aiutami continua lei come se mi avesse preso per un telefono amico, aiutami, ho capito, bofonchio, ho capito, aiutarti, che ti è successo ?, non lo so, non me lo ricordo, ho bevuto, anche io ho bevuto sghignazzo senza motivo, il dramma diventa una festa stronza, sono irreale per quanto sono inopportuno, torna il minchione, abbottonandosi la patta e proprio mentre mi viene vicino si accorge rimanendo con la bocca spalancata della donna-fantasma emersa dalla boscaglia, e questa chi cazzo è? sa solo domandare sperando che qualcuno assecondi la sua bifida curiosità, ma non gli darò questa soddisfazione, diciamo che avevamo un problema, ora ne abbiamo due, ma porco dio scandisce con teatrale trasporto, porchissimo dio ribadisco, come è andata nel bosco con cappuccetto rosso?, mica male mica male, per un attimo sembra riemerso dai suoi insondabili pensieri, bella bocca brava con le mani, ok ok continui a recensire dopo adesso vediamo la milady qui come possiamo sistemarla, dobbiamo chiamarti la polizia?, e mentre lo chiedo il mio sodale sbianca come un fantasma gotico come un polidori otrantino, ma tu sei scemo completamente scemo, la polizia qui con la minorenne che mi sono scopato, il cane frullato e una che probabilmente è stata violentata, ce la accollano a noi questa lo sai meglio di me, abbiamo anche un tasso alcolemico superiore al consentito, sorrido, si ma quello è un problema tuo, sei tu a guidare, fa presente, sei un amico ed io che ti ho pure pagato la mignotta, ma che cazzo, sarebbe come se dicessi alla polizia lo sapete che si è andato a scopare una mignotta bambina mentre io pulivo la macchina dalla carcassa schifosa della bestia, la polizia sarebbe entusiasta di venire qui, manco lo SWAT, manco le leggi della repubblica italiana vigono qui, siamo in amazzonia e a Sherwood, la dura legge della favela, ok ma adesso sentiamo la risposta della donna, no niente polizia, potreste portarmi in ospedale, ma in ospedale in quelle condizioni sarebbe come chiamare la polizia, hai ragione annuisce lei, dove abiti?, lontano da qui, al centro, e cristo, chiamiamolo in causa ancora dai, come cazzo ci sei finita qui?, portarla al centro in quello stato non esiste, dice il mio amico, se ci fermano  siamo rovinati, noi siamo già rovinati comunque si è una obiezione abbastanza precisa e puntuale, ne convengo, e allora?, mica possiamo lasciarla qui, no non ho detto né pensato questo, chiamiamole un taxi, ma stai scherzando?, certo che sto scherzando!, qualche amica, qualche conoscente nei paraggi?, aspettate, dai pantaloni sventrati e lerci estrae un telefono cellulare, non si è rotto per fortuna la sento tirare un sospiro di soddisfazione, credo stia consultando la rubrica, chiama, ciao! lo dice come se non fosse successo niente, come se non stesse parlando con due perfetti e malmessi sconosciuti sbronzi, sporchi di sangue, di intestino e coi pantaloni avidi di fica minorenne, senti Simo posso chiederti un favore si si sono con due miei amici, io sobbalzo a sentirmi definire in quel modo, per me amico è uno che ti paga cinquanta euro una bella scopata una scopata che possibilmente finisca in escussione a sommarie informazioni perché la mignotta poi è stata aperta in due come un abbacchio, e loro pensano sia stato tu sai che ridere tutti a svagare lo sapevo lo sapevo che lo avrebbe fatto uno che legge quelle schifezze uno che scrive quelle immonde esacerbanti atrocità doveva uccidere era scritto era scritto nella genetica e in Lombroso riesumato e riabilitato per l’occasione per condannarmi e poi tutti depressi e scornati quando capiscono che non ero stato io ad ammazzare la mignotta solo fortunosa coincidenza che fortunello ma sai, si borbottano ammiccando, potrebbe essere solo un errore giudiziario, una svista degli investigatori, perché lui è colpevole a prescindere, che dice questa tua amica allora?, potete portarmi da lei sorride, abita ad un chilometro da qui, ma davvero non ti ricordi che cazzo hai fatto prima?, no mi spiace, ti dispiace, non dovrebbe dispiacerti, su andiamo va.


ALIBI





Duecentossettanta pagine non sono un mondo.
Lo ha capito Musil, lo ha capito Dostoevskij, tragicamente non lo ha capito Pietro Adamo.
I propri piaceri non dovrebbero essere vissuti con spirito colpevole, con quell’aura incapacitante e calvinista di peccato ontologico, di sotterfugio escapista, queste stradine marcescenti incistate sul tessuto abusivo che nega il concetto stesso di gestione del territorio, affacciate alla finestra matrone romane con troppi chili e troppi anni, troppe disfunzioni sociali, guardano l’orizzonte verdino di cassonetti AMA scrostati e sentono nitido l’odore di piscio e di kebab e di rosticceria cinese, eccolo un mondo che merita di essere narrato, cantato, celebrato, e non dissezionato analiticamente, ed analmente, dalle penne stronze di chi non ha mai capito niente, le sovrastrutture da insorgenza giacobina che vorrebbero intellettualizzare il porno, renderlo altro da se stesso, privarlo di quelle meravigliose storie di dolore e di sofferenza individuale e di aghi conficcati frettolosamente in vene bluastre e di narici incrostate di sangue e cocaina e polmoni incancreniti dal crack perfino dalla colla e la tratta delle bianche che dai Carpazi giungono strisciando sui gomiti sotto le sferzate imperiose della disgregazione geopolitica di quel quadrante, eurasia di pompini e di deflorazioni anali e mostre atroci di quarti di bue umano sfilate in bikini e poi nude nella penombra di qualche night club, osservate e vagliate da occhi affaristici di papponi mondiali, kosovari redenti dalle bombe USA e dall’umanitarismo peloso dei giornali progressisti provano le bocche di queste minorenni facendosi spompinare, poi le recludono sotto terra in bunker di cemento armato e le lasciano nude al gelo a sperimentare il terrore di dio, come dei Robespierre invasati accecati dal senso ultimo degli affari, avenidas e rue e stradine di ogni porto, di ogni megalopoli, di ogni estetica perturbazione e la tempesta si avvicina, la finitudine del tramonto, saette, piove e tira vento, lo sento battere ritmicamente sulla finestra, vorrei affacciarmi come una di quelle matrone e percepire l’aroma della notte e del kebab impregnatosi ormai sulle scorie redente della romanità, eppure rimango inerte sulla poltroncina a leggere le teorizzazioni di Pietro Adamo e le sue epifanie redentrici di porno plastico e buono, la donna stuprata è rivoluzionaria, la donna finita sul pavimento a leccare scarpe Armani di qualche bonzo albanese è una donna sapiente e consapevole, ma mi dico, mentre un tuono echeggia come tetro monolite guerrafondaio e va a perdersi oltre i palazzi abusivi che limitano la vista, dove sono le annabel chong le brooke ashley le natel king, dove sono le storie oggettive di insipienza di disagio e di autentica sofferenza, quella sofferenza che ti lascia a boccheggiare senza speranza per un qualche futuro, qui trovo solo comode razionalizzazioni, puerili giustificazioni, l’istituzionalizzazione accademica e neutra della storia del porno, storicizzare il porno significa emendarlo e lindarlo da quella patina meravigliosa di abusi e di morti e di malattia e di corsie di ospedale e di figli partoriti con dolore e poi con altrettanto, se non superiore, dolore affidati da un giudice anziano e canuto a qualche parente lontano, perché una madre succhiacazzi non può garantire un corretto sviluppo psicofisico al minore, ed ecco così il bambino trasvolare da Los Angeles al Wisconsin mentre la madre puttana viene inculata su un set di Khan Tusion e piange lacrime di mascara e sperma, videoriprese dall’estro brutale di Khan, ed il bambino è lontano, un meteorite in allontanamento, evapora e trascolora come gli ultimi raggi del sole in questa uggiosa giornata, e dove è tutto questo, dove è l’odio rancido di Screwdriver per Linda Lovelace il furibondo bashing post-mortem, solo cattivi sentimenti, atrocità, odio, e qui invece è tutto bello, pinto, azzurrino come in un paesaggio espressionista o dei macchiaioli, quando invece lo sappiamo un po’ tutti, compreso Adamo, che il porno è Francis Bacon, è quella carne macchiata ed in fiamme, quello squarcio sagittale di sangue e malattia mentale ed anomia viola e viaggi della speranza e visti turistici trasformati surrettiziamente in ipotesi di lavoro e in prostituzione, quella battaglia combattuta in maniera cinica e spietata sul corpo, centimetro dopo centimetro, una Stalingrado di cazzi e sperma e fisting e umiliazione verbale e psicologica, confuse promesse e sopraffazione totale, e biografie infrante, ecco.
Le matrone piangono, urlano, chiedono, anzi invocano aiuto, perché il proiettile ha distrutto la scatola cranica della neonata, consumando l’ennesimo atto di barbarie cittadina, Tor Pignattara le Brigate della Morte, i lampeggianti azzurrini e le divise macchiano la scena intorpiditi tutti quei corpi dal freddo dal vento e dalla pioggia, e i rilievi col gesso e le luci arancioni, ufficiali, alti ufficiali, cronisti, passanti, tutti a guardare senza svolgere un vero ruolo quei due cadaveri stesi sul selciato mentre il sangue forma rivoli scuri e densi,  cartaccia residui di scommesse SNAI e i fiori che una mano pietosa ed anonima, rigorosamente anonima, ha gettato a terra lambendo i cadaveri, la bambina è uno scricciolo con la testa esplosa un panino di cervelletto e bile arteriosa ed ossa che il nucleo investigativo dei carabinieri deve misurare con una fettuccia e fotografare mentre i politici cominciano a telefonare per avere dettagli da usare nei comunicati stampa, i politici vivono nei loro comunicati stampa, ho sempre pensato che non abbiano altra consistenza fisica se non quella dei lanci di agenzia, stanno già starnazzando e pontificando e cibandosi delle carni straziate dei due cadaveri, erigono imperiose analisi sociologiche senza aver mai letto un libro, si rimpallano responsabilità, mentre i carabinieri prendono acqua e ripongono macchine fotografiche gessi ed il nastro giallo della polizia municipale separa curiosi e forze dell’ordine in un geometrico assetto di solitudine, di compartimentazione, i volti dei carabinieri sono provati, in alcuni casi al limite, solo gli alti ufficiali mantengono quel rigido formalismo tipico di chi non ha mai fatto un cazzo se non rendere conto in alta uniforme di gala a qualche assessore pedofilo, la legalità diventa parola chiave, digiti su google legalità e salta fuori una carrellata di opinioni inutili e mai risolutive, già pensano le matrone, legalità, la legalità di questi palazzoni in cemento armato costruiti senza alcun rispetto del piano regolatore e del regolamento edilizio, niente distanze, niente urbanizzazione primaria, niente scuole, niente ospedali, niente verde cittadino, un tetris ad incastro di puro abusivismo edilizio, i mercati abusivi e le autorizzazioni verbali degli assessori, i cartelloni che spuntano come funghi e uno se ne accorge solo quando ci si sfrittella le budella addosso, la volontà del sindaco prevale sulla corte costituzionale, così va il mondo, assessori abusivi, feroci critici dell’ordine e della legge quando ordine e legge cozzano con i loro specifici neanche tanto sotterranei interessi, eccoli ad affollare l’aria di comunicati stampa in cui evocano lo stato di polizia, il 1984 dei buoni sentimenti, il sindaco spara a pallettoni incatenati contro i romanzi e contro i modelli sbagliati, dice proprio sbagliati, si, non ci sono più valori né le mezze stagioni, così De Cataldo, che è il Pietro Adamo del noir, ma che è anche magistrato, per salvare il salvabile e continuare a vendere i suoi libri, fiutata l’aria che tira, capito che per quanto negativa quella non è più pubblicità ma solo merda grondante, si affretta a prendere le distanze da TUTTO, e dice no io stavo solo scherzando, questo è solo un romanzo, solo un libro, un libro ed i libri non fanno male a nessuno, è intrattenimento, ironia, il vuoto, ma né Musil né Dostoevskij capirebbero e per fortuna che entrambi sono morti da lunghissimo tempo, perché ne soffrirebbero a sentire queste stronzate, questo candido gioco al rimpiattino mediatico, a chi rende più inconsistente la parola scritta, è tutto a posto, tutto meravigliosamente ok, arriverà il moralismo ecumenico di saviano e le sue macchine del fango e i suoi raminghi “ve lo avevo detto”, verranno gli ascani celestinii e i moni ovadia che è un po’ un krusty il klown col bonus di Dachau a dare la colpa insensata al razzismo, gongoleranno piangenti come coccodrilli i fabio fazio, pontificheranno gli erri de luca costringendoci ad ammettere abissali responsabilità, noi cittadini privi di spina dorsale e di senso della legalità, tutti a farsi comode seghe erigendo altrettanto comodi alibi, la violenza va bene fino a che fa vendere, poi, quando supera l’immaginifica linea grigia della tolleranza sociale, diventa un esercizio di masochismo, praticato da pochi malati mentali, tra cui il sottoscritto.
Continuo a leggere, come un compulsivo ed isolazionista stronzo. Non c’è futuro, ma almeno io lo so.

giovedì 5 gennaio 2012

E' legge di Natura



E’ nella tua natura.
Un semplice atto fisiologico piegato dalla misericordiosa benevolenza, in questo lembo di strada dimenticato da dio – dio, porco dio, borbotta sinuoso e cianotico il villano col petto in fuori, il vento speziato e malmostoso blandisce i suoi capelli unti ben pettinati sul cranio, noi siamo ossa, continua, ossa e carne putrefatta, o meglio che potrebbe andarsi a putrefare, ora ordinami un’altra birra, eccoli i filosofi della debauche, gli orinatoi umani da logopedia metropolitana, mi costano più loro che un corso alla Sorbona, mi spacciano insignificanti aneddoti ed incontri come una cosmologica geometria di brufoli euclidei, hai mai succhiato un cazzo? chiede ad alta voce mentre la schiuma bianchiccia della birra gli stampa un baffo sulla bocca, e il barista continua ad assemblare drink e a raccogliere ordinazioni con un sopracciglio che nervoso si solleva, come a dire “vi tengo d’occhio brutti stronzi”, la tabula rasa non elettrificata e senza farci sentire due reduci con quelle parole a danzare nell’aria lercia del bar e che vorrete mai spaventare questa clientela queste puttane questi trans queste carogne fetide espunte dal consesso della rispettabilità sociale non è primaria occupazione, non è un cazzo a ben vedere e io mi rinserro nelle spalle e oppongo un netto no non mi interessa succhiare cazzi signor nessuno e ricorda che le tue birre le sto pagando io quindi l’aura professorale, signor nessuno bis, mantienila fin quando non mi diventa sconveniente.
Oh sconveniente, fa spallucce come una vecchia checca a Dakar, il sole africano, quanto era bello, e se mi diventa melenso e romantico giuro vado a vomitare nella latrina dove piscio e vomito compongono affreschi paleolitici evocati da stregoni pustolosi e sifilitici, la costa, il mare, quei cavalloni azzurri dispersi lungo la linea piatta d’orizzonte dove navigli puntuti cercano pesce, e mi sogghigna quel pesce come fosse una delicata metafora, un doppio senso esoterico e criptico, ed io naturalmente stupido e sbronzo e depresso e privo di opportunità migliori assecondo le sue chiacchiere con un sorriso vuoto come la strada fuori, quei ragazzi d’ebano, alti, fasci di muscoli e di sudore, belli da concupire, da leccare, da succhiare, il punto di rottura per me non c’è, o forse si, la noia, la coazione a ripetere, non il senso osceno di queste esistenze frantumate costrette a riavvolgersi su loro stesse come dischi fuori produzione, la sua voce gracchiante e cisposa, vagamente blesa, è un frocio languido e malinconico, solo come tutti i naufraghi che frequento nei pressi della stazione Termini, non si fanno domande sul perché io paghi le loro birre o le loro sigarette senza poi voler sperimentare la confusa sarabanda dei mefitici cazzi, qualcuno vuole convincermi di essere un omosessuale represso, ma io faccio presente, con voce stronzamente pacata e neutra che l’omosessualità in sé non è abbastanza perversa per i miei gusti, e perversione ed omosessualità abbinate tra loro nella disfunzione emozionale e nel tracollo di ogni codice etico di emancipazione e di semiotica e di comunicazione istituzionale politicamente corretta, un torello arzillo con le sopracciglia d’amianto una sera, forse reduce da una qualche festa bisessuale per mordaci froci e per collaborazionisti dei froci, empatici con il culo altrui, mi fece una boccaccia dandomi del nazista e disegnando con la bava sul bancone una croce celtica, al che io sorrisi, con quel mio sorriso coglione, di eterna bontà, come un teletubbie a lezione da Marc Dutroux e gli parlai di M. Cagnet, dell’Olocausto e di Anna Frank, della sodomia forzata nella cosmogonia elaborata dai Brainbombs e tutti quegli altri discorsi che varie leggi, giuridiche morali e religiose, vietano nel nome del decoro, della civica convivenza e di dio, non ho tono canzonatorio, né provocatorio, parlo a briglia sciolta spiegando i particolari dell’orifizio di Anna Frank come se un professore di diritto civile stesse intrattenendo il suo auditorium con una prolissa lezione sul negozio giuridico, interpolo le chiacchiere con calibrati sorsi di liquore e di birra e poi continuo ad assemblare mostruosità, ma non mi spaccano la faccia perché rimangono allibiti, con la mascella pendula, ed io quello vorrei per dio, rimanere io con la mascella pendula, incredulo e soddisfatto, succede di rado, ormai succede pochissimo, e mi illudo, mi piace illudermi che questi desolati e desolanti froci della Stazione possano scuotermi, possano assestarmi un metaforico calcio, ed invece è sempre amore, amore passato, archeologico, di peregrinazioni cazzoidali, di pompini e sfinteri sanguinanti, e la baia africana, col sole e il deserto e la sodomia marocchina e il Senegal e le seghe a due mani nella calura pomeridiana sorseggiando the, la mascella pendula della masturbazione dei minorati mentali, quella la ricordo con un certo grado di piacere, un ricordo molto vivido e nitido, percepito ancora oggi con nostalgico contegno, quei cazzi raggrinziti e appallottolati, e il down che mi spompinava il dito indice incautamente lasciato a disposizione in un raro momento di distrazione, e le riviste porno comprate all’edicola facendo la faccia di tolla mentre Amendola e Maurizio Costanzo risalivano via della Camilluccia salutando a braccia aperte ecumenici come il Papa.
Cosa cazzo ti pago a fare ? Gli domando, se oggi se ancora oggi dopo tutti questi anni i ricordi più belli sono i miei? Tu sei un rotto in culo con poche memorie degne di nota, nella mia prospettiva, ti dirò, nemmeno una.
Davvero ? Non sembra scomporsi, nemmeno alterarsi. E’ quel che pensavo; quando ti dicevo che è la tua natura. Tu vuoi vivere senza sporcarti le mani. Non succhi cazzo ma vuoi sentir parlare chi lo fa e vuoi sentir parlare di come lo si fa.
Non necessariamente, ribatto. E lo penso davvero. La non-partecipazione attiva suole essere il cavallo di battaglia dei miei detrattori e di chi, fondamentalmente, non capisce nulla di quel che faccio. Parto, continuo, dalla premessa che di sentirti parlare di succhiare cazzo non me ne frega niente, non è trasgressione, non è provocazione, non è disperata richiesta di compassione, ed io compassione non ne ho e se ne avessi la destinerei a qualche persona maggiormente degna di stima, della mia stima. Non voglio nemmeno sentirti ciarlare di pornovacanzine africane, che tanto si concludono sempre col magone e il mal d’africa declinato checca, ho una vasta tradizione letteraria da Burroughs a Matzneff per leggere di questa roba. Ti troverei interessante se tu fossi un emulo di Hogg, ma a vederti schiumare con la bocca ad O, una O di scemo stupore, ho capito che non frequenti quel genere di lettura e visto e considerato che sto pagando io le birre non starò nemmeno a parlarti in dettaglio di Hogg e delle altre mie letture, che forse ad honorem mi rendono più frocio di te, perché poi alla fin fine mi sono reso conto che devo essere io a spiegare ai froci le cose davvero da froci, quelle cattive, laide, parlare loro di Boyd MacDonald, di STH, di POZ, di Tony Duvert, qui invece con te sto ancora a Meryl Streep travesta.
Sta vagamente accusando il colpo. Scola l’ultimo sorso di birra, cauto si guarda attorno e rutta, non ha parole. Posso capirlo, gli do una pacca sulla spalla e me ne vado. Coraggio, mi dico, hai ancora una vita davanti da sprecare.

mercoledì 4 gennaio 2012

Queste mie mani




Non sei poi così diverso da me, dice.
Con quella sua voce roca, impastata di catarro, tabacco e cancro. Ti formalizzi solo perché sono un frocio? Un disgustoso pedofilo con le rughe di sperma e di scabbia istoriate in faccia? Un rotto in culo che fa gargarismi e borbottii e ragnatele di pus ?
Queste mie mani hanno scartabellato più copertine di film porno di quante tu possa solo lontanamente immaginare, queste mie mani hanno dato piacere a tanti vecchi ragazzi padri di famiglia eterosessuali curiosi desiderosi di riaccendere il senso profondo, e malato, delle loro esistenze, queste mie mani callose sporche segnate dal peso insostenibile della mia vita di solitudine, di questo quotidiano olocausto di tramonti e medicina e farmaci antidepressivi e lacrime e disforia, hanno stretto altre mani tra i soppalchi nelle cantine sui divani sfasciati e luridi, hanno smerciato droga e condotto il mio corpo macilento lungo invisibili direttrici scomparse nel ventre neon di Roma, per Via Marsala, per Via Giolitti, per via Magenta, marciapiedi ingombri di sacchi neri e merda e furgoni posteggiati in doppia fila. Queste mie mani hanno carezzato bambini la domenica, comprando pastarelle alla panna e alla frutta, hanno coccolato nipotine e minchioni di strada, hanno languidamente accompagnato al funerale mia madre con quell’ultimo disperato tocco di amore nichilistico e filiale – queste mie mani sono come le tue, frugano, scovano, assillano la scenografia di cazzi in culo che popola questa stamberga chiamata, informalmente, edicola, sfuggono le altre mani, evitano ogni genere di contatto, si inabissano tra le vhs e i dvd tra gli animali spompinati da tossiche allo stadio terminale e negre sieropositive legate a improbabili croci di sant’andrea.
Un fascio di luce rossiccia si incanala sui suoi lineamenti grevi, sottolineandoli come un arazzo di Bayeux, ideato in un club sadomaso frequentato da Bosch e da qualche inconsistente esegeta degli escrementi in bocca.
Sono solo, continua, voglio la morte, la reclamo, la bramo, ma non ho mai avuto il coraggio di dare un taglio a questa mia routine fangosa, non posso esimermi la sera, dopo una cena frugale e consumata guardando la distruzione del mondo ai TG, di prendere il cappotto fumare tre o quattro sigarette scolare un buon bicchiere di scotch e poi venirmene qui a guardare i ragazzini ucraini con le madri troppo truccate, i froci che fanno finta di pascolare i loro cagnolini di merda, i borgatari marchettari e i travestiti, un dipinto scolorito dal sapore pasoliniano che si trascina stancamente sotto i portici di marmo le fontane il gorgogliare scurito dell’acqua e i tramonti insensati rossi borbottanti di aerei e storni scagolanti e un panorama cupo tetro d’inferno di corpi malati e carni marcescenti, i taxi e gli autobus sbarco in Normandia di preti infoiati coi cazzi tenuti a stento tra le mutande baciano efebiche bocche di ragazzini rom stanze ad ore di alberghetti gestiti da ciechi, non vedono ma nemmeno sentono le assi del letto fatte scricchiolare sotto colpi di frusta e le urla dei ragazzini, preti che non riescono nemmeno a venire non hanno sperma quel poco rimasto ormai essiccato nel nome di dio in croce per l’eucaristia da celebrare quasi ogni sera nel culo di un minorenne sporco e zingaro.
Sono solo ed osceno.
Me lo dico ogni giorno, ogni santo giorno che dio manda sulla terra, ogni giorno che devo passare nudo sul letto a masturbarmi, tenendomi il cazzo molle tra le dita con un profondo senso di disgusto conficcato nelle viscere, con compassione e solitudine e asfissia, meno il mio cazzo senza alcuna forma di vera eccitazione, pura coazione a ripetere che non oso nemmeno definire sessuale. Non c’è scambio, relazione, non c’è amore, sentimento, nulla, solo un vuoto cosmico ed insondabile, una desolata terra di nessuno popolata di spettri e sadomaso.
Per questo ho preso a frequentare, come rito domenicale, le saune aperte a ventaglio qui attorno, a farmi spompinare da maschioni rudi e galeotti nel calore nebbioso degli spogliatoi, è un gioco divertente, un gioco di ruoli e potere e di guarigione, cazzi taumaturghi chiamati a lenire il peso della nostra solitudine, e vedi già il fatto che possa dire nostra, questa comunione di intenti scoperecci, non c’è personalità certo quello no non instauriamo relazioni ma solo sesso promiscuo ma è uno scopo, avere qualcosa da fare un pensiero che non sia il farla finita – queste saune sporche e oscure, lievemente irrorate di luci alogene, gironi bestiali di corpi nudi sudati che si aggrovigliano attorno a cazzi malati, si, lo devo dire, con l’aids ormai mi sento meno solo, le medicazioni, i controlli, i viaggi della speranza al centro malattie infettive, i colloqui psichiatrici, stare seduti sul bus e guardare la vita attorno come fosse un documentario di piero angela con i rituali borghesi di corteggiamento e le vecchie ciarliere, con l’aids io sono parte di qualcosa di grande, di bello, di potente, è il coronamento di un sogno, e quando vedo il sangue striare le mie feci, quando sento il cervello andarmi in pezzi benedico il cielo perché sto morendo e sto morendo dopo aver fatto quel che volevo, non sarò l’ennesimo patetico suicida trafiletto di cronaca nera finito ad ornare una pagina particolarmente stupida tra nozze VIP e qualche merdoso cold case.
Tienilo sempre a mente, amico mio.

lunedì 2 gennaio 2012

Questo non è il posto




Sarà una qualche eredità pagana da scontare, perché quando esco dal Multisala c’è vento, vento malevolo e carico di salsedine a colpirmi le narici, a spellarmele di brutto e a cristallizzarmi i capelli e gli occhi, non è possibile che sia andato, non è possibile che abbia atteso seduto infastidito che i fotogrammi quei frammenti boriosi degni della penna di un Curzio Maltese sbrodolante componessero un film del cazzo celebrato appunto dai curzii maltesi riuniti in tutto il mondo, quella congrega di falliti e dementi che trepidanti di smaneggiare e smanettare e fare a pezzi Lars Von Trier solo per una professione sbilenca di fede anti-umana, solo per un vaneggiare puffoso di HITLER con reazione pavloviana e indecorosa di plebi vaneggianti, hanno deciso che questo film, questa sofferenza cacata fuori dal ventre immondo dell’apocalisse di san giovanni ma senza le xilografie di Blake, questa storiucola immota e lenta di quella lentezza che sembra ipostatizzata da Malick con spazi ampi grandi luminosi e oscuri al tempo stesso quelle praterie sabbiose e le solitudini neon alcaline i pianori da grande west che vorrebbero essere narrazione alla McCarthy e Leonard e pure Bunker che cazzo mi frega, debba passare alla storia e passarci dalla parte sbagliata che è poi quella giusta nel senso comune ma per me davvero sbagliata e mentre i curzii maltesii continuano imperterriti col fiato grosso e rotto a spippettarsi in bagno alla vista, anzi alla visione epifanica di questa svagata rockstar mezzo-ebrea tanto irrisolta ma distribuita dalla giudeissima miramax, finita la ruota di scorta delle vite belle altro giro altro trionfo rapsodico e periodico, ecco quindi la vendetta la ricerca di se stessi la new age con fastidioso ossequio ai Cure e ai Joy Division ma senza suicidi né Anne Frank, vorrei un film sui Brainbombs e sui sobborghi anomici di Uppsala ma invece devo accontentarmi di questo cazzo di panegirico da pater familias rincoglionito odiatissimo e con trauma edipico lasciato al figlio sfigato e poi celebrato e con ego mefitico al sole, per quale ragione un figlio vuol tributare onori post-mortem ad un padre pezzo di merda ma io notoriamente non capisco un cazzo non scrivo nemmeno su La Repubblica, non voglio salvare patrie né darmi arie da intellettuale semplicemente perché sono superiore a queste merde umane, il multisala scorreggia le ultime lucette e l’odore di hamburger di carne frollata dal ristorante fast food e dalle pizzerie e dalla sala slot-machine, tutte le sale odorano di carne di vitella, si spande in aria colpendomi le narici assieme a quel porco vento, a quel canto di sirene cattivissime ed io rumino poderose deflagrazioni bestemmie e penso ai soldi che ho buttato, preferibile sarebbe stato andare a scommettere o accumulare le monete per giocarci a poker o comprarci un libro o un cd o disperatamente tirare sul prezzo di un pompino sulla litoranea dove le ultime nigeriane lottano su ogni lembo di terra una micro-berlino della prostituzione multietnica assalti all’arma bianca per la definizione di un nuovo scacchiere geosessuale.
Bello, vero ? Con questo devo fare i conti. Il giudizio estetico, e gli occhi strabuzzati della donna curzia maltesa, anche lei per l’occasione saltimbanco di mirabolanti imprese verbali e scorreggine patetiche di regime, il senso edipico è su tutto, come quegli hamburger in crosta di mondezza, e i rimasugli delle patatine, prendo le monetine per uscire dal parcheggio, una volta a tirare su la sbarra c’era un simpatico canaglione della Banda della Magliana, sfortunatamente eclissato dal piombo dei sicari qualche anno fa in piena pre-recrudescenza di delinquenza senile e borgatara, niente De Cataldo per lui, nemmeno Sollima, ma cinema-verità di cadavere bucato e sangue e un funerale sobrio e tanta gente a dire ma che cazzo davvero lui no non l’avrei mai detto, nessuno l’avrebbe mai detto, probabilmente nemmeno i sicari che non hanno detto niente né l’a né il ba si sono limitati a scendere dalla moto e a spintonarlo facendolo cadere per poi crivellargli il petto con dodici proiettili tanto per vedere l’effetto che fa, è più interessante la morte del tizio bandito che il film, dico lo sapevi che c’era sto criminale a tirare su la sbarra e lei imperterrita o che interpretazione ma secondo te era più Robert Smith o Ian Curtis no perché secondo me è un mix, dice proprio mix, anglismo da poco prezzo a mezzanotte meno un quarto io sono glaciale e ghiacciato ho le stalattiti di odio appollaiate sulle sopracciglia, un mix certo bofonchio errando tra le macchine alla ricerca della mia, un mix, letale, è un uomo sofferente, continua lei, sono certo ora mi sprofonderà nel baratro dei suoi studi di semiotica, pontificherà con me, parlerà a me a me che odio umberto eco e tutto lo strutturalismo di merda e le lezioni del cazzo che hanno elevato sta merda al livello di Deleuze, è il prezzo della democrazia mi dico, chiunque può avere una opinione e ritenere che sia così importante da essere gridata amorevolmente anzi cinguettata candidamente pensando alla inane stronza espressione di Sean Penn, una interpretazione intensa e sofferta, dice, certo confermo, sofferente, ma che cazzo di sofferenza, quella anodina insensata priva di humus e di sperma, dove sta il sangue, è tutto comodo, l’ebreuccio vuole vendetta, ma no che gretto antisemitismo, ed io penso a Cannes Von Trier e Klaus Barbie, proprio il nazista con nome da bambola una volta disse “i francesi mi odiano perché ho ferito il loro orgoglio gallico e ho dimostrato che sono stupidi”, al che i francesi non la presero bene, come non prendono bene mai niente, persino quando Carla Bruni fa i pompini al cesso e Strauss Khan va a fare le ammucchiate con le negre inalatrici di crack è una congiura antifrancese la resistenza oradour Joachim Peiper lo sbarco in Normandia e le baguette croci uncinate, sono un gretto antisemita e attendo in riva al fiume che il cadavere di Robert Smith passi, Von Trier è stato linciato perché non ha parlato di mangiare merda o di inculare bambini argomenti che ogni buon francese sovrastrutturalmente consapevole innalzerà nel pantheon delle metafore e della libera espressione Von Trier il danese ciccione simpatico e canaglia ha detto una burlona battuta citando il nome di HITLER e allora i francesi si sono scordati della bastiglia e della fratellanza e della marianna e della libera espressione e della dottrina mitterand e si sono indignati, continuando a pasteggiare con la merda.
Merda, come questo film.

Kinski a San Basilio




Hai una bella faccia tosta a volermi venire a parlare.
Ti vedo macilento e disossato come un malato di aids allo stadio terminale, un frequentatore compulsivo dell’Inferno orgia sudata notturna di maschi al calor bianco tra claustrofobiche atmosfere di poca illuminazione e blatte in mistica processione guidate dal puzzo marcio lercio sinuoso ed ellittico della cucina dentro cui pasteggiano due molossi, e dentro cui un cuoco e uno scrivano attendente al soglio dello sperma si spompinano a vicenda in conformazione dantesca e pasoliniana, affresco di strada segmento di tangenziale e tangente popolata di corruzione morale e trans che passano trascolorano come efebici ragazzini nebbiosi adombrati di luci morenti, un tramonto purpureo a gorgo e a strapiombo spezzato come l’armonico riflusso dell’esistenza, un ultimo orizzonte, un ultimo caos, pacche sulle spalle e cazzi in culo, il marciapiede scortecciato e puntellato con ferri e piombini e nastrato giallo bello spesso due quattro cinque mandate e giri di nastro e la folla assiste allo spettacolo vecchio caduto a faccia in avanti setto nasale proprio frantumato grida e bestemmie assortite e sangue che oleoso e poroso e rossino si spande virale finendo poi sparato sul margine destro della carreggiata dove spuntava un tempo il palo dell’illuminazione pubblica, scopiamo urlacchiano i froci a notte fonda chiusi nella loro camelot merlata tre quattro stanze e camerini ingombri di corpi e di calzini bianchi screziati di sudore e merda e un ginepraio di barbe e peli pubici in libera uscita su bocche distolte dalla primaria occupazione spompinante e distorte arricciate in un sardonico, vagamente satanico ghigno contrito di orgasmo negato, chi dona chi riceve chi va e chi viene, soprattutto venire, partire è un po’ morire la piccola morte nonostante le prominenti e barbose e pelose cariatidi e i capelli radi bianchi malati, commenti sull’ultimo viaggio e quel ragazzino quel suo amore di gargarismi spermicidi e farmaci antiaids, convivo col male, ci convivo, come un penitente in sordina a confessarmi davanti canossa e in supplice conviviale ultima abbuffata.
Giungiamo tutti a consistere di questo presente, facciamoci fiamma, borbotta quel ciccione, quel panzone butterato coi brufoli e le pustole ed il sarcoma bene in evidenza, come una medaglia al merito degli inculatori furiosi, cesellatore di vite rovinate senza alone violaceo ma farmacia notturna da presidiare ed urla disumane e dolore gelido a conficcarsi su per il retto, ospedalizzazioni di corsa con quell’autoambulanza di cui odora la consistenza perlacea, il suono della sirena metropolitana e i semafori bruciati e il vortice delle luci delle macchine delle presenze aliene che vede scivolare fuori quando riesce a tirarsi su e ad assicurare che sta bene, ce la fa, salvo poi tornare ad ululare come un lupo mannaro durante le strazianti fasi di una metamorfosi.
Cosa devi dirmi ? Di così urgente, intendo.
Il fatto che tu stia crepando di aids non rende la cosa più urgente, più degna di essere affrontata e dibattuta. Per me sei meno di questo tocco di merda che fortunatamente ho evitato, questo fungo di cacca bitorzoluta. C’è Klaus Kinski nei tuoi pensieri, lo so – il tuo cazzo di passato da attorucolo di serie Z, un paio di film horror, tre spaghetti-western, l’amicizia malata in senso letterale col poeta Dario Bellezza, ma devo disilluderti, spesso mi tocca questo ruolo dravidiano di cinico e lucido cantore della realtà per quanto io stesso sia completamente, inevitabilmente dissociato – devo farti presente che non sei un artista, che la tua casa invasa di fogli di giornale di vomito e di mosche appiccicate ai vetri che nessuno lava da circa due anni è solo tragico retaggio dei tuoi genitori defunti, di quella eredità indegna appunto, devo farti male per erigere il senso profondo della tua autostima. A chi mai può importare, dio cristo, se il tuo senso di fratellanza e di relazione amorosa implica il farsi cagare in bocca e sulla pancia, questa condivisione marrone di potere, questo scambio intellettuale in punta di stronzo – credi che Klaus Kinski avrebbe apprezzato questo tuo stile di vita ? No, lo sappiamo entrambi. Quando diceva “sei uno sporco ebreo e un tedesco non può stringere la mano ad uno sporco ebreo”, segnava la fase ultima e totalitaria del suo disprezzo per il genere umano, la nichilistica presa di posizione della follia abbacinante e vaticinante, e tu, integratissimo frocio artisticamente propenso alla comunicazione non verbale coi cazzi nel culo, ti saresti al massimo pigliato qualche sputazzo, ma non di quelli partecipi e felici, non di quelli amorevoli e froci, intendo proprio gli sputi di disprezzo, quel moto gelido e altero, quello sguardo feroce da Aguirre che conquista territori vergini, quindi insoddisfatto e rovinato torna pure ai tuoi parties incularelli del venerdi sera, alla tua trasgressione posticcia da decerebrato.
Non abbiamo più nulla da dirci.

SULFUREO




Troppo nazista questo drappo ?
Troppo sulfureo?
Può andare, ma attento ai riflessi sulla telecamera, attento a quell’artigliante bargiglio bianchiccio che si riflette come un neon dritto dentro al cervelletto istupidito dello spettatore, criminologi senza isola magica senza tesoro ma mutilati esibiti a beneficio delle casalinghe sgrillettanti, sbavanti e masturbatorie. Ramazzando il garage ne è emersa una scena disabilitata da sadomaso povero, molto scarno e demente, abortito come un rutto di provincia, e noi che siamo l’elite organizzativa possiamo permetterci critiche e commenti ironici, sarcastici sulle donne violentate, il prezzo della benzina, le accise, il povero gusto e l’incapacità di parcheggiare e cazzo progressista ficcato ben bene nel culo, sfintere sanguinante e violentato, oh cazzo dice lui ma secondo te che gusto c’è a stuprare una se manco puoi farti fare un pompino, un pompino stuprando in effetti è dura, dura quanto il cazzo mutato in macilento vagone ferrato, serra e digrigna i denti in un ribellistico moto di disgusto e ti amputa l’uccello dio cristo manco voglio pensarci e mi trascino il drappo lasciandolo a inarticolate considerazioni glaciali su un pube insanguinato e su un cazzo troncato, denti e sangue e bava e sperma, eros e thanatos, un insospettabile, diranno, quanto ci giochiamo ?
Non è quotato alla SNAI – circo autoreferenziale di banalità, ma per vendere meglio devi compatire il povero senso estetico dei tuoi lettori, diranno sicuramente che era un insospettabile, un quivis de populo, povere vittime, lo abbiamo assicurato alla giustizia, prigione, finalismo rieducativo della pena e dettagli pornografici di violenza, sadomaso giornalistico lo stupro vende abbastanza bene meno di un tempo perché ormai vai su internet e ti trovi arabi che decapitano ucraini che pasteggiano a barboni sfigurati e mangia merda compulsivi e tutta una sequenza di violenza sfrontata, su su non cianciare vuotamente, condividi questa mia analisi, quale analisi ? quella sulla intrinseca frustrazione emozionale, sulla insufficienza relazionale esistenziale sociale del povero stupratore, povero stupratore, sorride sogghigna pagherei oro per sentirtelo dire mentre il barbuto intesse il peana della donna vittima eterna, si si povero stupratore, frullato in questo minestrone uomo-oggetto venduto e processato a mezzo mediatico, che gran brutta cosa una volta Karl Berg parlava di Kurten o Lessing scriveva su Haarmann, adesso che ci rimane se non un Bruno Vespa butterato in vena di litanie cenciose, cosa ne è di quel potere inflitto dolorosamente di quella introspezione, tu le donne devi proprio odiarle porca miseria, ma no, non voglio essere frainteso, non sto dicendo quello, io sto dicendo che la vittima è una persona e quello strazio merita di essere raccontato, per goderne meglio, per venire in un copioso fiume di rugiada spermatica, perché la donna sarà pure una vittima eterna e incapace di intendere e di volere come lasciano presagire questi tutori della morale comune, ma io la vedo in maniera diversa.
Quale maniera, di grazia. Non c’è grazia..
Ma sofferenza, quella si.
Il cazzo si arriccia nella bocca, ed il disgusto è vero, mettiamo anche criminal profiling, quello del comodino?, esatto, un tocco di malevolo cattivo gusto, quindi propenderei per il si, sono così prevedibile ormai caricatura di me stesso, no è lui ad essere stupido, stiamo solo eseguendo degli ordini, è questo l’insondabile problema, reclamo una Norimberga anche per noi pervertiti, queste donne violentate succhiano poco cazzo, bofonchia con un ramingo filo di voce, ossantoddio ma non dirmi che adesso dovremo stare a sentirci pure lei, laddove lei consiste in una tetra rappresentante del mondo associativo umanitario rivendicazione ontologica di amore filiale e materno e gaia e bachofen e no scuoto la testa con trasporto nichilista, manca sempre un bel pompino in queste storie di violenza, ma tu ti immagini aspettare nel cupo freddo dei garage dopo una giornata di lavoro e solitudine e frustrazione avvertire quel licantropico e ferale istinto di cazzo eretto, ah la famosa sindrome ferale del cazzo eretto, si perché quello è, parliamone anche con linguaggio da neuropsichiatra ma in fondo un cazzo spinto dentro la recalcitrante fica e dolore e panettone post-natalizio da inzuppare nel cappuccino e le serate al circolo del partito democratico, dovrebbe parlare meglio, dovrebbero far parlare te dice lui, serio, ed io lo so, dovrei parlare, dovrei introdurre la lectio magistralis pubblicitaria con una recensione organica e dettagliata di CORPS DE CHASSE, ah quel film di Michel Ricaud, gran film, brutale, si, annuisco saggiamente, brutale e laido e cinico e granuloso come una carie nel cervello, non ci sono donne che non siano vittime in quel film, ci sono i travestiti un unicum detournante e scandisco detournante come fosse una germanica dichiarazione di guerra, insondabile stupro nihil-catartico, si, perfino Pietro Adamo si è dovuto arrendere, alzando la bandiera bianca davanti a quelle immagini, in CALVAIRE non ci sono donne, nemmeno là, già solo una, una che è una specie di ectoplasma, quei maschi poveracci danzano storditi e ritardati brutti come tutti i ritardati, come tutti i mongoloidi, lasciamo il politicamente corretto, e il politicamente corrotto, a casa, nel tepore di salotti masturbatori, i travestiti sputacchianti di CORPS sono meravigliosi, caricatura ciclopica di cazzi e gonne e la violenza diventa abbacinante senza redenzione, senza speranza di guarigione, qui invece ne sentiremo tante di chiacchiere new age, amore universale, totale, ci sanguineranno le orecchie a furia di percepire stronzate, il criminologo barbuto che è una sorta di jovanotti della violenza sessuale ci ha radunati qui nel nome del marketing aziendale, c’è un vecchio libro da riesumare, che culo, che clamorosa botta di culo, a proposito, fa lui, ma quel tuo libro, non so, dico sconsolato, scrivo di violenze ma nessuno violenta mai nel mio nome – già, dovresti cambiare agenzia.
Peter Kurten non è al momento disponibile, quindi continuiamo ad arredare il decoro scarno del posto.

Grotte Celoni Electronics





La speranza è una sodomia apocrifa, dice il motherfucker digrignando i denti sporchi e ingialliti, ingialliti da uno stile di vita disordinato, dalle sigarette e dai pompini catatonici che elargisce sotto lo strato spesso di cemento del sottopasso – geomanzia alla Le Corbusier, sociologia dello strazio genitoriale, mentre muovo un primo passo per avvicinarmi al motherfucker, un negro bleso senza la dignità di Kunta Kinte, quattrocento anni di oppressione, quattrocento anni di Lacan senza cazzo di negro, ed omosessualità virata al tempo, in questo tempo preciso e spaziale open-space di degrado e topi morti e reparti di infettivologia. Autoproclamatosi profeta dello spaccio e dell’incistamento frettoloso di mentalità sub-urbane con una madre in Africa e un padre camionista che affonda cazzo in fiche part-time e schiavismo ricontestualizzato, i fuochi rossicci che vanno disperdendosi lungo un orizzonte di mortalità infantile e agglomerati da Sprawl, in ginocchio gli urlo, gli intimo, gli ordino, quattrocento anni di merda e fanghiglia e spiazzi consolari e tombe miliari con quel marmo arrostito dal sole e dalla nebbia mattutina e dallo smog di fiumi metallici di pendolari, ficcateli nel culo, in quel cisposo buco di negro che ti ritrovi tra le chiappe, spiazzi e giardini con rose di cartone e cartocci di patatine unte e preservativi e kleenex e storie d’amore dopo la Casilina e la Collatina e in quell’immaginifico punto di raccordo tra le umanitarie illusioni del progressismo e le divisioni armate della droga, l’Imperatore di Roma, non Kunta Kinta, ma dove è Jerry chiede l’ombra disossata emersa sulla soglia mentre da dentro promana un odore di pesce e stufato e flebile chemioterapia e viramune e ziagen e retrovir l’aids è una scelta obbligata come una cartella esattoriale senza ricorso in opposizione, i vostri figli continua la voce da sciamano, ma è una donna devo constatare, una donna rachitica senza speranza, senza chance, senza emergenza abitativa, con quel racket australe e boreale di troppe mattine passate ad attendere l’autobus e poi le camionate di caporali e di muratori serbo-bosniaci e le botte ed i pestaggi e i lividi bluastri di Donna Ferrato, quelle foto, quegli scatti, quel flash abominevole, dove è tua madre, quella cazzo di scimmia, la dignità negra, i festival e la consapevolezza, Mary Bell e Tawana Brawley, uccidere non è poi così male, tanto tutti dobbiamo morire, disse la piccola mentre la conducevano in aula di tribunale, strozzato a mani nude un piccoletto un frugoletto caritatevole che si agitava come un pesce gatto tra le acque limacciose mentre Mary stringeva e arrossava le nocche con la bava digrignata e la vita sfuggiva come un ectoplasma di cattive intenzioni e sperma arancione, infetto, infetto come questi quattrocento anni di schiavitù che devi emendare, il motherfucker è preso all’amo, meno baldanzoso della scimmia che è sempre stato chiamato ad incarnare, bigiotteria da poco prezzo e vestimenti da over-sized rapper di poche pretese e altrettanto scarse emendabili non negoziabili miserie da strofa, il beat è carnoso dentro la stanza, Le Corbusier ne sarebbe fiero, si incontrino nella socializzazione da sobborgo le anime erranti e le loro madri che spompinano camionisti con le croste sui coglioni, rispettabili pedofili con la toga sciamano nell’annullamento esistenziale di queste autostrade per l’inferno a chiedere il conto, la carne malmessa, la colla, i polmoni stracciati, niente Gara du Nord ma Grotte Celoni con le cabine in acciaio dei bus e le scorte lampeggianti il sudore e gli eczemi, un eritema lunare di poca dignità.
Satana. Vive a Grotte Celoni, dice uno spiritello, un minorenne zingaro dal nome trash, anche lui lecca e succhia coglioni, come tutti gli abitanti di questa preoccupante area di disagio istituzionalizzato, fuga da new york senza deltaplani, bestemmie in sequenza, ordini di cattura, mandati transnazionali, e trans da strada e da piazzola, il kleenex è la bandiera spermatica inalberata sul pennone trionfale di questa non-vita, dammi una sola parola, e lui lascia cadere la bustina trasparente con dentro la droga, magico passaggio di consegne, difendeva isolato ultimo giapponese negro questa postazione di tufo e graffiti, e lampioni scrostati, difendeva la sua gang la sua banda la sua famiglia del cazzo, tribale nel modo di approcciarsi tribale nel modo di sputare sangue mentre gli assestiamo una decina tra calci e pugni, nel nome della solidarietà universale e del mito del buon selvaggio, Voltaire e Rousseau qui sono carta da parati per un cesso alla turca – tutti cercano Satana e la sua moto col telaio abraso, lo cercano e mettono a soqquadro loculi dalle pareti lovecraftiane, radio che cianciano di campagna acquisti e drammi, e maledizioni proletarie senza Marx, ossignore abbi pietà di noi bofonchia la sciamana nel vedere il suo pargolo ridotto ad una maschera di sangue negro, non c’è chance per una elezione di domicilio, la luce azzurra fende quel ventre nero di magma zozzo quelle aiuole curate con trasporto maghrebino, niente Casbah ma carne fagocitata e pustolosa con pus e cazzo e fiche drogate e abborracciate comitive eco-compatibili, li guardo col disprezzo tipologicamente connaturato a chi sa di non avere altra strada da seguire, non ho arma dico il silenzio dello spirito è la mia arma e tiro fuori la calibro 22 puntandola in bocca al disgraziato negro per l’ironia suprema dell’abuso di potere, ossignore continua la sciamana canticchiando un successo trapassato di Claudio Villa, queste borgate tutte uguali tutte fetide ma questa no più uguale delle altre con le linee di autobus scortate e il grigio del cemento screziato di merda e rosso, prendi quella testa di cazzo, prendilo, e vola un calcio da placcaggio selvaggio, componiamo beat ipertrofici sulla sua faccia rappando di manganello e calcio di fucile, la sega elettrica e un autoblindo sfasciano un reticolato da intifada anomica, e i casamonica guardano sorridendo, sorridono meno quando gli sfasci i denti e prima minacciano e bestemmiano e poi però implorano legati e sanguinanti, piangono invocano e blandiscono, e tu continui a sfasciarli, perchè perché porca madonna devi parlare inglese se l’inglese non lo sai a parte quel motherfucker imparato sui dischi scaricati in mp3 dei public enemy e vivi pure a grotte celoni, perché perché e giù mazzate, calci, pugni, denti spezzati, piaghe, e pustole suppurate, la pena di morte, reclamala, reclamala come suprema forma di liberazione, come tunnel d’uscita e casello autostradale, prendi lo 055 e lo 052 commercianti spaesati chiedono rispetto e legalità e si chiudono in rinserrati bunker di amianto e comitati abitativi con le solite rivendicazioni che voi negri di borgata siete così dispettosamente protesi a frustrare, e noi giungiamo non per partito preso non per escatologico razzismo, anche se mi piacerebbe, ma per amministrative scelte gestionali dell’ordine pubblico, già ordine pubblico, e ricordatelo mentre la mano guantata esplora le tue cavità insinuandosi come la banana tentatrice nel culo sfondato, parenti al braccio III e riso in bianco per dieci giorni poi i transiti al matricolare e vaffanculo al buon selvaggio mito che qui a grotte celoni non ha mai attecchito.
Hai trovato dio a grotte celoni, cantano gli zeloti nomadi, i progressisti arruffapopolo mentre snocciolo citazioni del Mein Kampf sulle tue natiche tatuate, faccia da cazzo con istoriati tatuaggini tribali da maori all’amatriciana, sistema fognario senza ritenzione e caditoie invase di melma e plexiglas e recinti e labirinti edificati dal Fuhrer dell’architettura ecosostenibile, la strada è buche alveo di cadute da motorino e assicurazioni false, o truffate, o dio solo sa se è stato trovato e rivenduto all’ufficio oggetti smarriti, qui è tutto falso, anche la tua dignità, anche il tuo essere negro, anche quattrocento anni di oppressione.