domenica 1 luglio 2012

Foucault non è mai stato ad Acilia





Giallo paglierino di urine andate a male, dipinto a tratti rudi e mano incerta sulla facciata di queste case ATER, odore nauseabondo di mancanza di vita, ovvero merda e scarichi fognari ostruiti da un universo parallelo di sporcizia. 
Voglio parlarvi di Acilia, di queste case che si incistano prepotenti a ridosso del mercato e della caserma dei carabinieri, non lontano dalla piazza malavitosa di tatuaggi AIDS ed eroina, parliamo ancora di spade e case occupate e disoccupati con sette figli, volontà di potenza a pantaloni calati - hanno pretese e urlano e spacciano droga, solo per campare, vivono errabondi tra gallinai e ruderi e foreste colme di carcasse di auto rubate, come se questa dimensione urbana si allontanasse dalla Capitale e si avvicinasse, metaforicamente ma anche praticamente, alle favelas e ai ghetti balcanici crivellati dai colpi di mortaio.
Cecchini della vena iniettano getti copiosi di eroina scadente, gli spacciatori impuniti si drogano coi loro clienti mentre vecchi camorristi pensionati giocano a ramino sui tavoli abusivi di un bar altrettanto abusivo, parlano napoletano e mafioso scosciando le carte ed emettendo fischiacci agli spacciatori e lamentandosi dei valori che vanno smarrendosi, non c'è più la mezza stagione e si stava meglio quando il domicilio coatto la magistratura lo imponeva ad Ostia e non qui ad Acilia, i camorristi non amano Acilia, troppa delinquenza lumpenproletariat, pasoliniana ed anarchica, refrattaria alla dignità e alla gerarchia, tossici che infastidiscono, puttanelle minorenni che occhieggiano e si lambiccano in astrusi modi per scopare i ragazzi dei loro sogni. 
Siamo criminali per bene, rispettosi dell'anzianità e del colpo in canna, dicono questi camorristi di settanta anni circa, le ombre della sera si allungano sul selciato, per incorniciare un plumbeo tramonto estivo, in canottiera pezzata ed ascelle prive di remore, questi camorristi ci salutano sorridendo gentili, aprendo a ventaglio dentature oleose e catramate come un selciato leporino.
Siamo carne da macello, dice la donna, negra e costipata, incinta, con un negrolino neonato tra le braccia - è una puttana, una puttana redenta dall'amore di un cliente, vivono assieme nel folto di un parco pubblico baracca di alluminio anodizzato e attività di meccanico abusivo, dentro casa pannelli viola e fucsia e arancio a far da tramezzi per scorporare la pastosa consistenza di questo lotto arruffato e occupato, una megera salentina che puzza di tabasco e di aglio mi viene incontro ululando contro il senso ingiusto del karma, non dice nè ingiusto nè karma perchè non ha un vocabolario mentale e concettuale utile per queste occasioni, ma bestemmia muggendo un porcoddio bleso pugliese che lo stato lo stato ingiusto e malvagio ed invisibile si ricorda di loro solo in queste occasioni mio figlio non c'è sta a lavoro, e quando bofonchia lavoro tutti ridiamo, separato da una proba moglie scassacazzi ingravida la troia negra e si rifugia a vivere con lei nel metaforico bosco di Acilia, dove persino un negro è considerato parte del tutto.
La nuora, la negra cioè, ha un permesso di soggiorno sporco di merda di neonato e puzza di latte e sudore e di cazzi altrui visto che per arrotondare si vende scopazzando clienti nel boudoir abusivo e psichedelico, sembra un dipinto di David Tibet sta casetta sfasciata e risibile, umida, caldissima, dalle pareti scrostate e muffose, una palude col tetto a due falde, pezzata, le finestre incastrate alla buona, nessuna planimetria razionale, un giardinetto coltivato a pomodori e motorini rubati.
Fa pompini nell'afa irrazionale di giorni perduti, mentre il figlio gorgoglia volendo latte e tetta negra, ci pensa la suocera a rabbonirlo, mentre la nuora soddisfa le povere voglie di qualche vecchio, vecchi che scuciono pannollini e qualche decina di euro, ingoia la troia, siamo persone orrende invece di fare il nostro asettico lavoro di socializzazione e di redenzione istituzionale ci balocchiamo con questa anomia da poco prezzo e fluttuiamo nella sporca e calda aria del pomeriggio estatici e gaudenti.
Questo terreno è nostro, dice la vecchia, ma saremmo pure disposti a ridarlo al Comune, in cambio di una casa decente. 
Il terreno sistemato e curato amorevolmente da mio marito, pace all'anima sua una cirrosi epatica se lo è portato via nel paradiso dei santi bevitori ma senza aplomb mittle-europeo, questo terreno lo abbiamo occupato, allora non è vostro dico io insensibile del tragico ricordo e della pattumiera antropologica dentro cui siamo calati, le assistenti sociali inorridiscono perchè le assistenti sociali sono umanitarie, kitsch e puttane e sognano queste storie d'amore interrazziale e inter-classista, e si pastrugnano la fica nelle loro facoltà di sociologia e di psicologia al pensiero della redenzione della puttana, non sono marxiste al massimo marziste impegolate nell'otto marzo tutti i giorni, io la redenzione non la vedo ad essere sinceri, non la fiuto, sento solo odore di fogna e di foglie marcite e in lontananza rumore di macchine a tutto gas - è nostro, nostro, ripete in mantra la vecchia e si accalda ed accalora e le sue gote vanno tingendosi della vergogna, forse realizza quanto in basso è finita, mai si sarebbe  sognata questa vita del cazzo una volta espatriata dal suo inutile bigotto paese del cazzo nel salentino, niente più notte della taranta, riscoperte alla de martino e alla capossela e porco dio l'antropologia senza dolore e senza merda è solo esercizio di stile, copertine di libri adelphi e seminari alla lacan nella comune parigina, ma noi siamo qui nel campo, sul campo, nel ventre bulimico di una terra sapida, non c'è la volontà di sapere declinata nel senso foucaultiano ma ci sono, in compenso e per compensazione, esistenze tritate e spezzate che accollano debiti non loro, martirio sociale, la più bassa e brutta delle assistenti sociali una salentina pure lei o una calabrese orrenda che puzza di muschio etnico e di sud america mi dice di lasciar stare di attenermi al motivo per cui siamo là di non dare adito a polemiche sterili, sterilizzerei volentieri lei, questa puttana malmessa che difende lo squallore dentro cui bivaccano e si riproducono sacche di delinquenza, è questo il mio lavoro, mettere a disagio la gente come te, troia, penso ma mi limito ad una rapida quasi impercettibile scrollata di spalle e le indico le carcasse di barche motorini, sono tutti rubati, lo sai, e lei digrignando i denti da puttana meridionale, quella dei film porno amatoriali da strage di capaci, mi dice che il vero problema è il furto legalizzato delle banche e tutta una sifilitica logorrea da centro sociale, il problema cazzo non sono i negri di acilia, mi dico, il problema sono questi negri bianchi che vorrebbero avere la cultura del senegal nel profondo del cuore e del culo e soffrire di mal d'africa nei villaggi valtour del kenya dove nidi di mitragliatrice e cavalli di frisia preservano la quiete delle ville e delle piscine, bello questo frutto proibito della società multiculturale tradotta nei fatti all'afrore delle ascelle pakistane sul tram, vorrebbero un contatto con la vera cultura locale e per nettarsi la coscienza dal peso del colonialismo succhiano con rara devozione i cazzi elefantiaci dei negri, ma un pompino, ormai, ha eretto il nuovo volto della cultura occidentale, è tutto un caricarsi erigersi e scaricarsi gorgogliando parole di amore universale e new age e porno multirazziale rabbonito, senza giacobini della violenza, senza ghigliottine e florilegi rape.
Che vita di merda, dico tornandomene verso la macchina.
Dietro di me, tutti sorridono amorevoli e buoni e bravi.


sabato 10 marzo 2012

Il primo cesso





Il primo cesso della Borgata Finocchio è una frasca piena di camionisti e transessuali, scritte sbilenche su latrina e diarrea e cielo d’asfalto tutto sopra come un fascio di luce neon per un panino che non avrai mai, prendi quel numero di cellulare tracciato con grafia incerta tossica ed alcolica, morbo di Parkinson con forte introflessione anale, pompini bulgari ed albanesi e problemi ormonali e psicologia spicciola di amore filiale di questi trans mitologici coi cazzi blesi e le tette plastiche e il cazzo eretto e il naso rifatto cesellato dalla cocaina e gli accenti sudamericani, cellulare lasciato con tanta speranza e umanitario senso di partecipazione su una tavola di legno a cui ogni spompinatore si appoggia per fare la cacca.
Messaggi esistenziali di sesso promiscuo, girotondo e carnevale di passione smodata, morte totale dell’ortografia perché troppo spesso la trasgressione sessuale si accompagna alla trasgressione sintattica e grammaticale, bravo uomo rumeno cerca cazzo da adorare, diventa tragicamente bravo omo rumeno ceca cazo da adorare, e qui puoi perdonare al ministro degli esteri e alla caritas e alla integrazione comunitaria e razziale il peso della ignoranza delle campagne di bucarest, l’integrazione razziale dei preti è amore è cazzo nel culo di bambini da sverginare fai la comunione con dio cristo e lo sperma raggrinzito del prete di frontiera karl marx carlo giuliani e la nambla.
Paramenti pentecostali viola, camionetta della cooperativa sociale, prendete preservativi ulula il prete in aperto contrasto con la dottrina e la fede, prendete preservativi come li prendo io per confessare analmente i vostri pargoli, battesimo di sangue e di psicologia ritorta, bravi cristiani questi trans, maya 2012 e Marc Dutroux, gusti simili nel nome del padre del figlio e di quanto ci piace odiare, è una strada lunga e catramosa chiamata Casilina sporca ed ingombra di capannoni e di camion, il prete è fermo in mezzo alla strada accanto ad una piazzola tetramente illuminata da un lampione tardo vittoriano che sfarfalla bargigli arancioni, me lo rimiro con quel disgusto nietzschano da montagna e da nebbia, sento lo stridore dei treni della deportazione, contro il prete si ha solo il campo di concentramento, neve e camini e comignoli e fornaci a pieno regime, si fottano loro padre pio e santa maria goretti, la sifilide e l’aids e la clamidia scorrono letali come infezioni sacrali katal huyuk del sesso orale, dove è il Papa dove sono le cicatrici dove è la redenzione l’epifania dove è la strada di damasco quando attorno hai solo le puttane della Borghesiana.
Anche Maria Maddalena era una prostituta, bofonchia il Don riallacciandosi la patta, con quel cazzetto moscio e ricurvo come uncino, la minorenne albanese è paonazza e sporca di sperma, me lo immagino preciso e sputato il maiale, fatto di cocaina, ad intimare prestazioni, a bestemmiare, succhia il cazzo di cristo le diceva, nutriti della merda del signore, il mio sangue è il tuo sangue, e giù una sequenza di soddisfacenti porco dio perché ad un prete in fondo per godere basta poco, una fica minorenne e una sapida bestemmia, anche maria maddalena continua anche maria maddalena faceva sesso, ma lo stiamo circondando e nessuno di noi ama particolarmente gesù, fa freddo è notte ed il posto è di merda, siamo tutti lontani da casa intirizziti stanchi e carichi di odio, odio nei confronti di gesù e di questo prete, ascoltiamo i Kylesa e i Pelican e smozzichiamo panini e sigarette e birra, prete, dice uno, vieni con noi, e il verbale sarà speciale, lo portiamo dove il folto della boscaglia promette sospiri e gemiti di camionisti facendoci strada coi manganelli e le lucine elettriche, vieni con noi, lui borbotta protesta piange anzi piagnucola come una cacatina di mosca, lo sanno i tuoi parrocchiani, lo sanno che vieni a fare di notte, eh, ?
Avanziamo come un plotone d’esecuzione, lui ha un colorito cadaverico e puzza, esattamente come tutti i preti, puzza di tabacco di qualche droga erbacea di paura e si sudore e di carne est-europea, cosa volete farmi bofonchia con i lucciconi agli occhi, questo è un abuso, non potete, ho dei diritti, certo dico sorridendo i diritti della costituzione repubblicana dell’antifascismo e della pedofilia, sono le stesse cose dice quello dietro di me, annuisco, potremmo torturarti ed ammazzarti e spargere i tuoi resti ai quattro venti, la testa nell’Aniene, le braccia sulla Casilina, le gambe sulla Prenestina, il tuo cazzo a Via di Bravetta, perché il cazzo a Bravetta ? mi chiede uno, perché ci sono tante chiese da quelle parti, santuari e santità mica vorremo deluderli, no ?
Stiamo ridendo tutti, mentre il piccolo stereo rimanda accenni drone da foresta e plenilunio, è molto black metal questa marcia della morte e della paura, non abbiamo facepainting ma pistole e divise.
Satana non c’entra niente. E’ solo una spicciola vendetta da periferia romana.
Scommetto che vai dai No Tav, gorgoglia una voce davanti a me, il prete dice no no per carità, per caritas, per via marsala per san lorenzo, per tutti gli Dei, No Tav, napalm e via andare, centrali nucleari, così ci toglieremmo dal cazzo pure questi camionisti che cagano nei boschi e giocano ad incularella nei depositi ATAC, finirà tutto questo, finirà come finiranno i preti ed il loro dio di merda.
La latrina centrale è dove tutti i miasmi spermatici e merdosi si assommano, dove i preservativi si accatastano inerti facendo marcire e inacidire il liquido seminale, dove la merda forma cataste di letame essiccato, dove divani putridi e brodosi osservano prestazioni sessuali sempre più degradanti.
Spogliati, gli ordiniamo, il suo timido accenno di ritrosia è lenito da una manganellata che gli apre una ferita sulla fronte, da cui zampilla del sangue. Piange, singhiozza, cianotico come il porco dio. Cade in ginocchio con le dita a schermare gli occhi e in un patetico tentativo di tamponare la ferita.
Spogliati, stronzo.
Questa volta esegue, senza particolare ritrosia.
Nudo è rivoltante. Un involtino primavera flaccido e bianchiccio, pieno di rughe. Questa sarebbe l’autorità della Chiesa ? Andiamo bene, andiamo proprio bene.
Una volta nudo, ci avviciniamo e lo colpiamo a calci, facendolo finire nel centro putrescente della merda, gli sfugge un urlo secco ed improvviso, di raccapriccio dolore ed umiliazione, che è poi in fondo ciò che potrebbe volere questo miserabile scarafaggio.
Ti viene il cazzo duro in quel pantano di broda marrone ? Eh, stronzo?
Ma soprattutto, ti viene mai il cazzo duro, a parte quando devi mellifluamente sborrare in faccia a qualche ragazzina ?
Impiastricciato e piangente, al limite del soffocamento, implora misericordia.
Non ci sono cieli azzurri, qui, gli dico, il cielo azzurro non è il cielo di Roma, brutto pezzo di merda. Ricordatelo. Ci prendiamo i suoi vestiti e lo abbandoniamo nel folto della boscaglia, e ce ne andiamo ripartendo con le macchine.
Meditazioni notturne, per te brutto stronzo.

venerdì 9 marzo 2012

Con le spalle al muro





Puoi riconoscere un vigliacco dal sudore, da quella puzza incancrenita di ascella a ruota libera piscio di cane in bocca e sulle tempie, tempie che pulsano e che puzzano, richedendo misericordia come la costa concordia, inverno del nostro scontento tutti a bordo di questo figlio bastardo quartiere dimenticato  dal piano regolatore verde pubblico ma un giardino con stronzi di cane e spacciatori piegati dalla rigidità della stagione è una non-esistenza,  è Bastoggi e Stalingrado ma senza panzer senza elmi d’acciaio ma bustine e stagnole e carta da parati scrostata dietro cui nascondere il relax confortevole di un viaggio a Regina Coeli.
Guardo il ragazzo – indossa quella tuta adidas che se vivi a San Giovanni puoi definire vintage, ma che dalle parti di Boccea è solo molto IPM Casal del Marmo, rossa con righine bianche, l’andatura dinoccolata povera ed antica dei tossici e dei borgatari rimasti orfani di Pasolini, ha uno sguardo vacuo, istupidito dalle ore di play station, dalla coazione a ripetere di rosticceria articolo 187 e notti raminghe randagio tra discoteche in cui è sistematicamente rimbalzato alla porta quelle notti da naufragio quando rimane da solo, in camera, coi poster dei Colle der Fomento e di Ice One e le locandine virali di qualche rave, la madre lo implora di abbassare lo stereo, e di togliersi quella tuta che puzza, ma non di sudore.
Guardo questo ragazzo e le sue corse disperate sulla tangenziale, a fare consegne di pasticche e di pasticcini per eroinomani, sotto il cielo grigio incupito e cementificato di una città che ha dimenticato il senso della parola amore.
Il rumore di tamburi lontani, una eco che va scomparendo come i lampi all’orizzonte, retate, duecento pattuglie di polizia e carabinieri coi lampeggianti blu ad irrorare di paura la notte, stivali del radiomobile, i ricatti morali e materiali del manganello i soprusi, sei una merda dice il maresciallo facendogli leccare la punta degli stivali, gesuddio pensa un brigadiere abbastanza novizio e sufficientemente frocio per provare un brivido da cazzo duro, un sussulto temprato da notti passate allo Sphinx a fistare il suo partner, ma anche una qualche vaga memoria di garanzie costituzionali, non è giusto tutto questo pensa mentre il maresciallo continua a farsi sciusciare lo stivale dalla lingua piangente del malcapitato, questo non è un criminale sussurra un sovrintendente capo della polizia entrato casualmente nella stanza alla ricerca di un ufficiale per fargli firmare l’annotazione di reato, questo è un povero coglione, lasciatelo stare che così bofonchia farete di lui un maldido potenzialmente ergastolano, non mettetelo con le spalle al muro, ma il maresciallo non ha orecchie per intendere ma solo stivali da esibire scintillanti e prussiani ben bene insalivati, è saliva di tossico borbotta un sottotenente che pur gerarchicamente superiore è nei fatti un subordinato, troppo giovane troppo timido e sbarbato per poter capovolgere l’andamento della situazione e la brama giudiziario-sessuale del maresciallo, anzi gli guarda con timore oggettivamente reverenziale le decorazioni i nastrini del Tuscania e dei turni in Iraq che svettano sulla divisa, proprio sul petto.
Guardo questo ragazzo piangente, vessato, umiliato – l’unica cosa davvero positiva, mi dico, è il rovesciamento dei principii costituzionali. Magra consolazione però. Lui non parla, è fedele al rigido codice dei film e della malavita di plastica, di quella che lui pensa essere la malavita, e di cui sa tutto perché lo ha sentito nei testi rap. Musica da negri, e quindi di merda, dice un ispettore in borghese e tutti poliziotti e carabinieri annuiscono, un anziano e canuto maresciallo si lancia in una filippica contro la figlia rea di ascoltare quell’abominio su basi elettroniche, i poliziotti ridono e gli sbattono la tragica evidenza in faccia, tua figlia se la ingropperà qualche negro della stazione termini, ma porco dio urlacchia il maresciallo vecchio, il sottotenente non ha più fiato in corpo per una reprimenda e si limita a dire che non si dovrebbe bestemmiare, ironia penso, quanta ironia, non si dovrebbe bestemmiare ma intanto il tossico sta sempre carponi nella metafisica trasposizione sadomaso della giustizia, è solo questione di priorità, e di tipi di droga.
Sai che questo pezzo di merda, e non c’è divisa nella stanza e in tutta la caserma più in generale che abbia utilizzato epiteti più amorevoli e gentili del “pezzo di merda”, mi sibila nell’orecchio un vicequestore aggiunto che ricordavo già da prima di questa operazione, si era caricato di shaboo e crack ed eroina, shaboo, dice scandendo ogni singola lettera, eh shaboo ripeto io ma l’eco muore fuori in strada dove ha iniziato a piovere e dove la pioggia si fonde alle lacrime e alle recriminazioni in tuta di parenti ed amici dell’arrestato, niente più musica da negri per questo pezzo di merda, shaboo ripeto ancora la droga dei kamikaze giapponesi la droga dei filippini brava gente, non si drogano di giovedi allora sorride credendo di essere tremendamente spiritoso un commissario capo semi-calvo e butterato il cui volto sembra una riedizione dei Goonies in una sola persona.
La stanza è un florilegio di divise, di torri di stelle di torri con stelle di barrette una due tre, tutti arrivati per godersi lo spettacolo, la messa in scena della desolazione umana, e romana, questa tuta piangente, questa tuta per sempre spezzata cosa mai potrà pensare di noi, ma è un interrogativo stupido, che non mi renderà una persona migliore ma solo un frustrato impenitente, perché devi farti un muro, un muro lungo l’anima, un muro in gola, e ripeterti che il nemico è il cittadino, devi pensare a tutti gli acab che questo pezzo di merda, ed inizi anche tu a figurarti il pezzo di merda come unico criterio definitorio, avrà gridato al parchetto, allo stadio, in rosticceria, credendo di essere spiritoso, devi immaginartelo intento a rompere il cazzo e dire, dirti in primis, che la sua punizione non sarà nel calloso dispositivo di un giudice ma nella punta leccata di quello stivale.
Guardo questo ragazzo. Questo…nemico.
Queste pareti hanno conosciuto odori, paure, fobie, sangue, calci, sputi, hanno visto gente piegata, annichilita, fatta a pezzi, quella donna rumena presa a schiaffi con guanti da saldatore e ricondotta alla ragione del silenzio e delle lacrime dopo riottoso incipit di protesta, hanno visto gente ingiuriata umiliata spezzata nel profondo.
Puoi cantare tutto quel che vuoi, farti forza e autoconvincerti di essere un dio, ma la verità è che parlerai, come parlano tutti, e anche per te scorrerà quel sudore. Con le spalle al muro ormai, ci rivedremo, ed ogni volta sarà peggio.

sabato 11 febbraio 2012

Come la neve al Prenestino







Sei bella come la neve al Prenestino.
Un manto di purezza bianca che va coprendo il profilo altrimenti grigio e nero dei palazzi e del labirinto chiamato tangenziale, dove ogni uomo cessa di avere una dignità e diventa una transazione economica virata al degrado tra siringhe, fazzoletti insanguinati ed ossa macinate dallo scorrere cristallizzato del tempo, un fluido interscambio di taxi, autobus per deportati e perdenti, e i lavori per stazioni della metro che non saranno mai inaugurate.
Anche tu come quella neve cadi dal cielo, in concentrici cerchi stellari, con l’orizzonte tremolante di acqua piovana e le nuvole nerastre battute da un vento gelido, un vento malinconico, che sa di spezie e di povertà e che si incanala ululando tra gli androni cementificati di questi alveari di edilizia popolare, chiese casematte con le mitragliatrici e i cavalli di frisia i vigilantes e i controlli serali, ed i lampeggianti della polizia che irrorano di secrezioni ectoplasmatiche decisamente blu i marciapiedi su cui camminano in silenziosa processione casalinghe cinesi, nessuna scuola, le poche piazze giardino coltivate a cactus e peyote ed eroina, un pantheon di divinità hip hop tatuaggi scadenti e corsi professionali da carcere minorile, perché tutti sono innocenti, dicono le menti eccelse.
L’avvocato mandò in esecuzione il precetto facendo pignorare la macchina del padre del tuo migliore amico, perché non era stato pagato in termini da lui reputati soddisfacenti, l’avvocato era ed è un uomo algido, austero e unticcio, in giacca e cravatta e mocassini da stupratore, un uomo che non ha mai stretto una mano con la sola e pura intenzione di porgere un saluto, è sempre stato distante e compassato, con quegli occhi mobili insondabili da squalo, lo studio arroccato in un feudo bene dove le case hanno minimo due bagni e tre balconi o giardini curati da filippini ben poco sediziosi, uno studio lucente e spazioso con una esposizione su una villa pubblica adibita a parco, con le coppiette a cinguettarsi amore più o meno eterno – quello studio, feudo nascosto agli occhi, dove per andare bisognava prendere due bus e qualche fermata di metro, sentendosi man mano che il viaggio proseguiva stranieri in terra straniera, i vestiti inadeguati, il trucco pesante, la camminata vistosa e territoriale, un contegno lombrosianamente destinato ad essere rifiutato.
Brave casalinghe condannano, puntano il dito, mormorano commenti scandalizzati.
Contro di loro.
Come prima lo avevano fatto con te.
Le casalinghe timorate di dio che si masturbano sul cadavere di Sarah Scazzi, mentre Barbara D’Urso trasfigurata in un cono di luce da epifania caldea troneggia e secerne commenti di una bontà zuccherosa e da carie al cervello, c’è puzza di morte, di dolore, di sofferenza, lo strazio di una madre esibito nella stanza dei trofei tra un pompino da grande fratello e una discesa sulla fascia di un mediano omosessuale, le casalinghe vengono e sbrodolano liquidi dalla vagina pastrugnandosi ferocemente mentre la madre di Elisa Claps cade in tranche dopo aver troppo pianto, vengono in sincrono quando lei sviene, ed è un tripudio costellato di club privè e ville architettonicamente conformi ai precetti americani e feste private e rituali borghesi comodamente organizzati nel tepore della sera dopo una giornata spesa a rinfocolare il placido status quo.
Casalinghe occhieggiano silenziose, o ciarliere, con i cagnolini puffolosi al guinzaglio lungo, cadono stronzi di minicane che i filippini si umiliano a raccogliere, mentre le padrone proseguono nella loro infaticabile opera di moral e social bashing, chissà da dove vengono questi orrori, sputato, ecco quel che pensano, lo vedi, lo capisci, non ci vuole una laurea in antropologia per fiutare il disgusto e l’eccitante senso del nuovo dell’esotico del pericoloso che balena in quegli occhi languidi e su quei nasi rifatti, orrori lovecraftiani che sciamano neri e cattivi dalla periferia dimenticata, da quelle cronache cariche di amore e compassione dei missionari, santo cielo pensano ma allora esistono davvero.
Ogni mese di lavano la coscienza portando magliette sporche alla Caritas.
Ed ora, in questo preciso momento, vedono sconvolto l’equilibrio etologico della loro zona.
Non sanno  nulla, e proprio per questo si sentono in dovere di giudicare.
Non sanno quanto sei bella, profonda, ricca di sfumature, ma devono giudicare per evitare che qualcuno lo faccia con loro, hanno il terrore di restare sole ma ti accollano ogni frustrazione mondiale, il loro dito è un ultimatum, una condanna inappellabile, si fanno idee risibili e sociodeterministicamente orientate di anomia pur senza aver mai  letto una riga di Durkheim o Talcott-Parsons, crudo e cotto, freddo e crudele, il cielo sopra i Parioli minaccia pioggia, mentre l’avvocato riceve i suoi clienti e blandisce e utilizza un contegno da amico, l’idea commerciale che può avere dell’amico, mentre fuori le casalinghe mantenute e puttanesche continuano a macinare le tue ossa.
Hanno deciso di farti il vuoto attorno, di espungerti dal consesso sociale, forse per i tatuaggi, forse per le derive blues notturne tra neon e giardini trascolorati nel nero assoluto e per quelle direttrici psicogeografiche attraverso tutta roma che ti hanno resa così potente, pensano di potersi crogiolare in una tua presunta debolezza, ma non vedono la tua enorme forza, perché altrimenti dovrebbero ammettere a loro stesse la paura, il terrore sacro di rimanere ferme davanti alla solitudine del cosmo. Hai le spalle forti per non curarti di queste puttane, casalinghe frustrate ed emotivamente costipate, non hanno mai guardato se non per interposta persona, nella fattispecie la fica di Barbara d’Urso, il dolore, quello vero, si sono crogiolate in villaggi turistici e serate gotiche e taglietti indolori sulle braccia, dicendosi maledette e solitarie e destinate ad una sofferenza putrescente, salvo poi fuggire ogni singolo sottoscala, ogni locale fumoso e invaso di corpi sudati dove la droga diventa la bandiera dei pirati a caccia di innocenti da sacrificare, gringos e bande sudamericane e contest hip hop e graffiti vergati a testa in giù sui ponti ferroviari, la perdita, il senso di quella perdita, non sanno cosa sia, vivono giocando alla tristezza alla mestizia alla malinconia, quella malinconia urbana da ponte.
L’avvocato chiede i suoi soldi, assicura che è tutto a posto, ma non è tutto a posto, per quante lauree possa aver conseguito non può ingannare il senso di sopravvivenza e di autoconservazione di queste madri giunte da lontano, i loro figli rinchiusi ed istituzionalizzati tra domandine e mute richieste di pietà.
L’avvocato non ascolta davvero. Le orecchie deve averle sviluppate per mero senso di appartenenza al genere umano.
Né l’avvocato, né le casalinghe, né i feroci paladini della purezza underground potranno mai capire, farti la tabula rasa attorno è solo mascherare la loro debolezza, tu scendi sinuosa e bella e forte e determinata e parli, mi parli, di ciò che sei, di ciò che sei sempre stata e che sei diventata, io ascolto, a volte sorrido a volte rimango in silenzio, in trepidante muta adorazione, non sono perplesso, sono semplicemente senza parole, perché non so cosa dire, qualunque cosa io possa dire diventerebbe un sofisma inutile, un bizantinismo inadatto ed inadeguato, ti ascolto e mi rendo conto di essere vivo, nonostante attorno a noi scorrano fiumi di ipocrisia, di sofferenza, di solitudine, di pianori alcalini e fabbriche dismesse, il vapore appanna i finestrini e ti guardo negli occhi, quegli occhi così neri, così grandi, così ricettivi, quegli occhi che hanno conosciuto la tempesta e i parchi e la notte, il ventre cupo della notte, quegli occhi che mi infondono gioia e serenità, sei bella, rendi queste strade migliori nonostante a saperlo siamo solo io e te, anzi forse proprio per quello.






domenica 5 febbraio 2012

Un Padre






Un padre ha diritto di fare del male, perché un padre è tradito nella biologia e nei sentimenti e nella atavica riproduzione ferina ed animale, un padre colpisce uccide dilania e in primo luogo lo fa con se stesso senza traccia alcuna di rimorso o di compassione, un padre è spietato e draconiano e sincero e nudo davanti a se stesso, un padre taglia le sue braccia con un coltello e fa sgorgare stille di sangue quando il dolore diventa insopportabile quando eradica e travalica i consunti limiti mentali e morali della sopportazione e diviene vomito totale che spinge sull’esofago, ci penso mentre ti vedo stesa sul letto assonnata e rapita al tempo stesso da questa cruda rappresentazione del dramma paterno, la leggenda di caino e la maledizione della solitudine errabonda su una terra depopolata, non è una storia di vendetta ma di verità un padre lava sempre l’onta in primo luogo per se stesso e poi per amore filiale, c’è quella scena di raggelante crudezza in cui, con piglio sicuro e conati di rabbia e frustrazione, lui va in cucina a gettare nel secchio le ceneri della figlia morta, un pugno allo stomaco niente facile splatter consolatorio non c’è sangue ma una crudezza senza pari un coltello che possiamo sentire scavarci nell’anima e ci guardiamo come a dire questo è il limite questo è il punto di rottura il ciglio dell’abisso su cui Nietzsche e Sade si fermarono a guardare di sotto lo zabriskie point per ammirare il brodo primordiale dell’umanità negata, non è questione di odio ma di sincerità, c’era stato l’hardcore minimale e crudo di P. Schrader quella propensione calvinista al male ontologico alla miseria morale alla navigazione a vista tra neon e bordelli e larvate metafore di dannazione ma qui non c’è più nessuna metafora nessun sofisma nessun abbellimento ornamentale c’è un nome sparato in faccia alle vittime torturate macilente e fatte a pezzi c’è la pornografia e la vendetta di un padre che porta fuoco vento e disgrazia la redenzione è un volto rovesciato che guarda da dimensioni ctonie il motore invisibile che fu Kali e Arjuna e riferimenti culturali per devastare la carne possono piangere possono implorare ma lui è sordo e cieco e illuminato da questa aura rosso-iridescente che pulsa e si spande in virali volute, porta giustizia e verità e lo fa col piglio sicuro del cinico greco la lanterna avanti a sé per spingersi più a fondo nel cuore di tenebra che è la condizione umana, ognuno di noi ha la sua tenebra le sue fobie le sue idiosincrasie il suo passo incerto nella malsana palude nella mancata conoscenza e nella trepidante attesa di un evento funesto, sono città di ghiaccio ad ospitarci e te lo leggo sul volto l’ho letto ogni singola volta che ci siamo abbracciati ogni volta che ci siamo parlati o semplicemente rivolti la parola, è quella forza quella costanza che davvero rende le persone ulteriori rispetto al mare della vita è quell’oceano lautremontiano richiamato da Carmelo Bene dalla sofferenza potente e dal chiudersi a riccio contro la vita nella celebrazione della vita stessa ogni birra ogni sguardo perso sulla cresta di schiuma bianca nelle luci basse e soffuse in ogni bacio in ogni singola nota ascoltata in ogni reminiscenza di vita in ogni nichilismo lasciato a decantare ogni attimo di pausa, è giusto sentirsi stanchi e deboli a volte abbandonarsi all’abbraccio e alla protezione alla fiducia perché per troppo tempo siamo rimasti fermi a guardare la vita scorrere come il flusso del traffico perso sotto il tramonto,  a sputare sulle macchine dal cavalcavia e non era debolezza ma propensione al martirio al disossarsi a porre e porgere domande a cui nessuno, noi stessi in primis, abbiamo voluto rispondere, i viaggi senza ritorno il pollo fritto riarso a Pattaya sulla sabbia sporca e claustrofobica con la merda di ritorno, ti guardo e sei piccola e grande al tempo stesso, forte e fragile, determinata e gentile come questo padre, questo padre che semina tempesta su strade australiane, c’è una protezione che non è fallimento che non abdica alla autonomia della persona abbiamo un orgoglio simbiotico, il sonno inizia a vincere la sua battaglia e i fotogrammi compongono forme sdilinquite caotiche la violenza rimane inalterata ma il senso ora è diverso, ora che ci siamo, ora che siamo qui ed assieme, ora che quella solitudine è un ricordo un cilicio per rammentare un memento di troppe notti nomadi e passate all’ombra del nulla a cercare qualcosa che pensavamo fosse fuori di noi e che invece era qui, in questo momento.

Come perdemmo la nostra innocenza






E’ una linea discontinua tracciata con vernice nera sbilenca, a perdersi lungo la tangenziale tra guard rail scrostati e indeclinabili solitudini metropolitane, ossa macinate ossa frullate spezzate dal contenzioso esistenziale di questa deprivazione, notti di cappuccio nero e di cattiveria e di cattiverio camere di sicurezza e anomia da commissariato a rendere sommarie informazioni testimoniali, escusso come scosso come uno stregone uno sciamano potenziato dalla droga e indagato e inquisito non giudiziariamente ma esistenzialmente, inondazioni disperate di psicologia ASL e formalismo burocratico a nessuno importa davvero un problema perché un problema non è mai sociale ma individuale e nessuno ti aiuterà mai, basta con i miti del buon selvaggio ed ascoltiamo i Coil guardando il nulla della notte il verde neon della farmacia notturna e i tremori ed i tremiti ed i languori pentecostali di sofferenza e il sudore e i tatuaggi sbafati dipinti da mano incerta tra Parkinson ed aids, la trasmissione volontaria del nichilismo in cattedrali gotiche incistate nel ventre cavo di Roma dove i parchetti diventano coreografici come Auschwitz e il cielo di catrame e kleenex, locali porno e saune e massaggi e parlour e bordelli minacciati dal moralismo puntuto e pretesco e pedofili di belle speranze in partenza per Bangkok, a quante orribili inutili persone ho concesso libero accesso tenendo fuori chi davvero avrebbe meritato di entrare, a quante somatiche inconsistenze ho permesso di accompagnarmi in viaggi tra La Barbuta e San Basilio portando carichi di morte e di solitudine metallica, disperazioni anodine e isolamento alla Kerouac in angeli di desolazione la mia metaforica torretta di avvistamento ma senza satori zen senza ordalie e consuntivi con quel silenzio avanguardistico speso a rinverdire i fasti di John Cage e John Zorn notte dei cristalli e frantumate le ossa con quel fiotto di sangue e bile arteriosa e marroncina, sto morendo mi disse e stava morendo davvero con la siringa nel braccio a scurire la vena e a dare consistenza bluastra alla carne un alone in virale espansione, la bava bianca e gialla e rossa, gli occhi vacui ispessiti dal dolore e dalla malinconia dai flash della notte dai fari della macchina, ed i cazzo i cazzo i cazzo quelli terribili da autogrill e da distributore povero di benzina con le siepi istoriate di preservativi spermatici fazzoletti cornetti smozzicati e lacci emostatici e copie consunte de Il Messaggero, la situazione politica con uno stronzo di cane sopra spiattellato come una frittata di merda essiccata, sto morendo borbotta ed io lo guardo in muta contemplazione non ha bisogno di aiuto mi dico e lo dico perché sono un vigliacco non ha bisogno di aiuto perché non saprei come darglielo chi chiamare oppure, più probabile, saprei chi chiamare ma non giustificarmi davanti a dio e alla legge, così compongo il numero di emergenza e richiedo una autoambulanza mentre su strada alcune puttane volgono lo sguardo e scrutano con finta partecipazione, tra contrattazioni cocaina e sberleffi, la nostra fine, la perdita della nostra innocenza, non è modo di morire questo, tra asfalto mignotte e merda di cane, quale cazzo di epitaffio potrò mai darti, quale ragione ci ha spinti qui, e no mi dico non voglio averci niente a che fare, che il destino ci trovi sempre forti e degni il volto di Degrelle in foto bianco/nera a campeggiare su quel manifesto che ti avevo dato, segnale rituale di buon augurio quando sei andato a Londra a cercare un futuro ed ora, tragica ironia della sorte, stiamo consumando la fine, la fine ultima e abbacinante, proprio in Italia, a Roma, in una periferia eterna e cancerosa, tra palazzi a picco sul grigio e ragazzini che giocano all’hip hop tracciando tag e graffiti, la metempsicosi geografica e musicale la traslazione delle anime e l’innalzamento della soglia di dolore, ti hanno lasciato solo a nessuno è fregato un cazzo del sapere come sia cominciata e perché,  non c’è nulla di ludico nulla di ricreativo è quel vuoto da riempire che prima riempivamo con Evola e Nietzsche e che poi ha assunto altri connotati, è la pietà che ho sempre detto di non poter provare e che invece mi si manifesta nuda e splendente in questa notte di neon e lampeggianti, è la morte dell’onore, non sono una persona migliore di te, lo sappiamo entrambi ma tu stai morendo e non puoi dirmelo, stai gorgogliando bava ed io sono fermo vestito di nero e con le mani sporche di colla, la macchina con il bagagliaio mezzo aperto i rotoli di manifesti appiccicati ai sedili e le rune del tuono nella mente, cosa stiamo facendo come ci siamo arrivati come siamo giunti a questa fine ingloriosa, nemmeno Goethe quando chiedeva luce più luce sul punto di morte si sarebbe immaginato questo epilogo tra le Torri cementificate di Roma, luci di finestre irreali fortezza bastiani di solitudine, graffitari ascoltano pessimo hip hop oltre il cavalcavia e le trans gorgheggiano canzoni di laura pausini trionfi ispanici e due clienti cocainomani commentano l’ultimo libro di Fabio Volo la lettura soprattutto quella inutile ed indolore rende liberi, e tu mi stai morendo davanti, mi stai morendo a pochi passi, non muovo un muscolo quasi nemmeno respiro più, sono paralizzato, glaciale, ibernato, ho stalattiti appuntite che scavano e cesellano la carne e il fiato condensato in nuvole di vapore fa freddo ma io sento freddissimo, vorrei l’ambulanza fosse qui ed ora l’hic et nunc jungeriano di tor pagnotta le scritte murali un nuovo presente la rimembranza il funerale le braccia alzate da pochi intimi per una morte così sconveniente così tragicamente contraddittoria, finirai nel novero dei camerati che tutti discutono e che nessuno vorrà considerare un camerata, per questa fine pagheremo caro, ma tu stai pagando di più il prezzo più alto ed io continuo a ragionare in termini plurali, in termini di mio stronzo ego, di satrapiche dimensioni metropolitane, è una Roma chiusa indifferente cinica su cui svetta una luna madreperlacea candida come il cesso del distributore e gli schizzi di merda lambiscono i nostri volti tra stelle comete e morte e dolore e sofferenza e io non posso dire altro, se non che mi dispiace e mi netterò la coscienza mettendo a soqquadro le mura contendendo ai graffitari del cazzo ogni singolo centrimetro coprirò le loro tag e i loro messaggi con il mio odio con la mia morte interiore con le mie svastiche con la mia retorica, abbiamo sbagliato tutto, io forse più di te, perché tu lo capisci mentre vai abbandonandomi tra bolle di sangue e rantoli e convulsioni e mute richieste di empatica compassione, io sono fermo nel mio mondo perduto di codici di formalismi e di rituali, verrà il giorno della espulsione per indegnità e capirò di essere stato ingannato da me stesso, di aver tradito la parte più importante del mio essere, ti dedicherò questa scritta mentre l’autoambulanza non potrà che constatare il decesso e ripartire vuota nell’attesa cupa e lancinante dell’arrivo della polizia.

mercoledì 1 febbraio 2012

In questa Roma





Non c’è neve in questa Roma, non ci sono apparentemente che luci e ferite e cicatrici e alberghi da poco prezzo e treni che sferragliano verso il nord, verso una meta improvvisata lanciata a velocità tale da rasentare l’accelerazione bianca crudele estatica, quel picco montano di cemento abbarbicato sulla tangenziale e sulla geometria euclidea della droga, capannelli di marocchini e di pakistani e globalizzazione dello spaccio ragazzine piangenti una dose un pompino due dosi una scopata dolorosa nel culo  glabro e virginale di liceale poco poco uscita da I Cesaroni e dai libri della Pijola, discoteche per minorenni e pedofili pingui rattristati e razzisti, non c’è neve né speranza, un vento pieno di fumo carico di escrescenze tumorali e di peep show con quelle sagome tra lo scalo di san lorenzo e porta maggiore e la casilina e le luci arancioni e le comitive di punkabbestia che negano dio e la famiglia e si drogano coi cani fumando calumet della insipienza sociale e barcollando poi tra fontanelle sfasciate acque nere e pioggia, pioggia di piombo grigia densa e macchine che li evitano per miracolo, non c’è neve oggi, non c’è stata ieri, mentre il treno sferraglia sinuoso e pedante rallentando la sua corsa triste, il mio sguardo perplesso il mio viso incorniciato dal cappuccio nero gli occhi spenti e desolati dopo un viaggio lungo riflessi carnicini e purpurei e poi neri di questo finestrino opaco lercio sporco sudicio, compagni di viaggio non umani, compagni di viaggio borghesi senza la metastasi della malinconia senza orizzonti da frullare nel sordo gorgogliare della motrice binari sedimentati tra paesaggi urbani porti cieli e foreste e mondi a picco sul cuore, cantano di carlo giuliani e ci fanno film e spari e canzoni colorite e colorate e buchi sulle braccia e la nientificazione totale abbacinante lo sguardo vorace e cieco, compagni di viaggio logorroici e io chiuso nel mio mutismo isolazionista e socialmente deprivato con le cuffiette a scavare solchi sonori nel mio cervello chiuso in me stesso chiuso nella memoria chiuso in ciò che temporaneamente ho  lasciato e che presto ritroverò, e loro pontificano ciacolano uggiolano come cani battuti presi al guinzaglio e all’amo da una vita di anomia borbottante e bestemmiante, sequenza feroce di disfunzioni, quei mostri che ballonzolano draculeschi nel cuore di ognuno di noi ma che alcuni si ostinano a lasciar fermentare, punkabbestia chiedono l’elemosina da spendere poi in pessima birra e in altrettanto pessimi concerti da centro sociale, giardinetti curati con estasi e siringhe, trasfusioni di aids sotto lo sguardo sereno del cielo di roma, questo cielo senza neve ma con tanto vento e con quell’odore fumante di pollo arrosto e di maestà, gretta, insolente, insensibile, la città è chiusa come sono chiuso io, mi rivolgono la parola sperando in feedback apprezzabili ma non ho tempo da dedicare alla conversazione, sono in contemplazione del mio volto, guardo gli occhi nelle iridi nelle pupille nel nero che vortica e si arriccia e gorgoglia come un canto di maldoror mentre fuori i graffiti dell’ostiense e del testaccio e le mura franate e mai sanate e il dolore mai rimarginato scorrono fusi tra loro in una grandguignolesca parafernalia processione di strazi e di rimembranze cimiteriali, mi sono dovuto allontanare e perdere tutto per ritrovarmi, per ritrovare il sapore di queste ricerche di queste esplorazioni, we found love in a hopeless place, attraversando le terre di confine il settentrione del nostro incontro tra la neve a passo lento con il fiato a condensarsi in nuvole di vapore e fuori il grigio ed il bianco e un sole pallido lunare smunto a riflettersi sui tetti morti delle cascine alberi scheletrici altrettanto grigi e una linea di terra e cielo tutta agghindata di niente, un silenzio irreale nonostante stiano parlando, e il treno scorre e si disperde lungo la campagna, sempre più giù, sempre più lontano, c’è sempre un motivo quando ti guardano dentro senza sapere chi sei, da dove vieni, e per quale motivo ti sposti sui segmenti di acciaio elettrificati,  c’è il motivo del morboso moralismo, il considerarti personaggio e persona non grata, l’asfissiarti di domande stronze e di risposte che essi stessi formulano senza attendere che tu apra bocca, se mai la aprirai, non è contegno zen, né misantropia, o timidezza, è solo sonno, sonno e poca voglia di condividere te stesso con queste nullità, le parole andrebbero centellinate e riservate a chi le merita, non sparse a profusione in uno slancio di ecumenica condivisione, le vostre disfunzioni stronze non sono le mie, le vostre paranoie plastificate debitamente e con tanto di formale timbro di oscurità non mi appartengono, guardo in maniera obligua e sbadiglio, nel loro  tragico tentativo di sorprendermi di scioccarmi di provocarmi io non faccio che ululare di sonno e di stanchezza e di malinconia, agevolare la vostra crescita individuale non appartiene alla mia ragione sociale, continuate pure a nascondere i vostri scheletri nel mio armadio e a sentirvi liberi e migliori per questo, non ve lo impedirò perché in fondo sono buono, di quel genere di bontà che un giorno uccide, e state là in silenziosa ammirazione con gli occhi trasognanti della luce di barbara d’urso sperma divino catodico reiterato nel samsara del gossip e della cronaca nera, una pessima equazione non risolve enigmi antropologici, troppi cani hanno pisciato sulle vostre scarpe troppi gatti hanno finto amore e passione per i vostri croccantini, sono una persona migliore dell’ologramma che avete formulato con l’assennato giudizio della sbronza serale del vostro incedere scontato di gossip underground, questi viaggi portano al golgotha crociuncinato alla rivelazione ultima di treni sfrigolanti e vapori terrosi e neve sciolta e la bufera e il vento glaciale, a guardare di fuori, il sibilo e la furia degli elementi, in questa Roma non ci sono che dimensioni spaziotemporali alterate e discontinue e parate egotiche sbraitate nel nome di un grado sempre maggiore di solitudine, non c’è che carta, non c’è che cartone, conglomerati di barboni e di carità pretesca e di barbieri etiopi dalle forbici oleose di psoriasi, c’è un personaggio in fondo al tunnel, la proiezione di chi non sa nulla ma semplifica nel nome delle convenienze, questo non è un gioco, non lo è più, è un incontro, una epifania, una redenzione, una catarsi, è il volto rovesciato e meraviglioso di noi stessi, la negazione della negazione, l’ultima presenza in cui si giunge a consistere di quella fiamma, di quella vitrea baluginante lingua rossa che arde senza pace, è la nostra Roma,  in cui a ben vedere ci siamo soltanto noi due.

sabato 21 gennaio 2012

Dalle finestre in fiamme



Ti guardo e vorrei dirti ciò che nessun libro ha mai detto, ho nel cuore una pira incendiata di Norimberga e un Heidegger intento a bruciare saggi, ho un vortice carnicino roteante come la svastica primaverile vista cadere nell’ultimo rogo berlinese, la neve di Stalingrado e la morte glaciale la carne che diventa roccia e muta consistenza e il dolore irrorato arancione ad intermittenza sulla circonvallazione casilina dove siamo fermi a parlare, attorno chiazze di vernice e degrado metropolitano e immigrazione aggressiva e studenti fuorisede che sperimentano notturne epifanie deportandosi sui bus notturni in compagnia di esotici rom balcanici di ritorno dalla ricettazione di motori, continuo a guardarti ma ho troppi libri non ancora bruciati nel cervello carbonella esistenziale nella mente incrostazioni suppurate da Pigneto by night, il nero fumigoso della prenestina che scorre parallela alla vita è un oceano vecchio e decrepito lautremont in nave pronto al naufragio senza speranza ho una confessione di più una processione di intenzioni e di narrazioni e di vividi ricordi, non lo dici ancora ma lo capisco da quegli occhi, da quel nero che sovrasta i bargigli siderali del cielo, li osservo e li scruto e li colgo nell’atto di aprirsi a raggio sul mondo, hanno contemplato paradisi di carne e giardini di disperazione alchemica consumati anni prima nella introspezione assoluta, dolorosa, totalizzante, tutto quel che ho dentro non porta numero di pagine non può essere espresso da altra lingua all’infuori dell’urlo insensato, quanta gente abbiamo visto consumata ed erosa e portata via dalla storia quanti condannati quanti viaggi senza ritorno quante speranze vane cioranianamente schiantate quanti abissi stoici di suicidio assistito, i martiri da piangere agli incroci con la siringa nel braccio e le scelte sbagliate non fatte ma da cui si è stati fatti, rimango silenzioso, muto, non è da me, non è dal me che gli altri credono di conoscere e padroneggiare quasi esistesse un copyright giuridicamente apprezzabile una eterodirezione da burattini di anima e non-vita, così diversi e così simili, non uguali perché l’uguaglianza è morte, siamo l’ultima thule l’estremo rifugio della ricchezza e della serenità, c’è ancora speranza dicono gli stronzi quelli che muoiono nelle loro case borghesi di duecento metri quadri senza aver mai sperimentato la gioia pazza della lotta, non c’è nessuna speranza porco dio ma solo volontà, la volontà del ferro e del marmo, ci siamo distrutti ma poi ricomposti e dai frammenti è nata una foresta, come sperimentare una fusione, una dichiarazione, un atto di fede, mentre attorno macchine senza assicurazione parcheggiano davanti ristoranti indiani e la musica bassa sinuosa e potente di bassi slabbrati si propaga nella notte, Roma fa schifo ed è bellissima persino vista da qui, dall’abitacolo accaldato e appannato di questa macchina, le luci le stelle i fari alogeni le insegne neon le puttane i controlli di polizia il sudore le lacrime la degenerata rapidità della consapevolezza, è tutto vero, tutto qui, tutto a portata di mano, in un abbraccio che dura secoli, un abbraccio che è la certezza di un ritorno, dicono di capirti ma stanno pancia all’aria a farsi seghe con la loro presunta personalità, col cartone e le considerazioni sceme, la connessione internet sfasciata e i tentativi artistici per lenire inadeguatezze sociali e psichiche, non capiscono nulla, figuriamoci gli altri come se l’arte fosse xanax, ansiolitici creativi da deportare nel modo più feroce, ci siamo lasciati alle spalle quel dolore quella sensazione di nullificazione quell’ansia sofferta e crudele quel getto di vomito nero inchiostro e sangue e lacerazioni sulla pelle e nella mente, il fumo smette di alzarsi e di andare via nel vento, le finestre smettono di ululare, la morte sarebbe rimanere in questa stanza a guardare il fuoco divampare e col caldo asfissiante a sciogliere la carne e il non poter più attendere e doversi gettare dalle finestre in fiamme, come se non ci fosse alternativa, come non ci fosse un domani, siamo noi due e mi parli con una disarmante purezza, con quel tono gentile e forte, di poesia e marmo bianco, con quegli occhi ricettivi e mobili e vischiosi che vorrebbero inglobare e fondere e metabolizzare l’esistenza tutta, perché hanno visto tanto e sofferto e vissuto e percorso strade notturne e labirinti e vie senza uscita però con una palizzata da scavalcare, le ginocchia sbucciate per le fughe repentine le ritirate strategiche, quel profumo di saggezza di strada, mi dici quanto di splendido e di nero hai nel tuo cuore, ed io ascolto, come un penitente accoratamente proteso a vivere, con te, e se cristo è risorto perché non possiamo farlo pure noi, anzi lo abbiamo già fatto, e siamo qui a parlarne, noi due.

Il Mondo che abbiamo perso



Barcolla come l’ultimo uomo rimasto sulla terra, nel volo sincopato di uno pterodattilo di acciaio trasfuso in nuvole ed aloni bianchi di fumo, la luna di tre quarti madreperlacea insondabile incupita e virale pozza d’argento sporcata guarda da sopra benedicendo i lampeggianti blu e la merda grondante dalle caditoie e le foglie e le buche che spezzano l’asfalto, lo segmentano in una ragnatela di ipotenuse di responsabilità civile con i vecchi caduti a faccia in giù, devastati da radici di pino e dall’incuria dell’amministrazione, barcolla solo e macilento con gli occhi viola le vene ispessite le braccia bucate e le croste e l’aroma olezzante di piscio e strada nomadica e una linea povera anomica di camper malamente parcheggiati, storie di famiglie infrante da mutui troppo esosi, non ci sono strepiti sociali urla bestemmiando i porco dio a ritmo di rap se il rap fosse una cosa da bianchi, ma lui è un bianco, sporco e negro come tutti i poveri senza prospettiva e senza futuro, se la merda avesse un valore i poveri nascerebbero senza buco del culo, perché si chiede perché non posso avere una vita socialmente irreprensibile come tutti questi borghesi che mi sfuggono e che mi passano accanto ed oltre guardandomi con reverenziale timore, il contagio la peste nera la scabbia l’epatite il cazzo dei preti, non hanno mai succhiato il cazzo rugoso e spugnoso di un prete, quell’affare moscio che non si drizza mai e che ti tiene occupato nelle fredde notti d’inverno quando piangi e smozzichi parole di pietà e di misericordia ma nonostante tutto la croce ti viene ficcata nel culo, dritta sparata senza riguardi vaselina od omelie, c’è solo disgusto nausea senso di impotenza perché questo scarafaggio in nero che tante chiacchiere fa di amore e di solidarietà universale perché questo apologeta del vangelo e delle sofferenze di nostro signore impone la sua personale redenzione di sangue e sperma al mio culo brufoloso e sporco, perché, ed è un perché che punteggia e drappeggia il suo sinuoso avanzare nel folto del parchetto tra le giostre istoriate di graffiti e di siringhe appese con sapido gusto scenografico, la vita non rende il conto anche a chi se lo meriterebbe, ed oscilla alieno a se stesso tatuato nel profondo dell’anima il dramma sofocleo dell’eterna partenza, non ci sono luci che non siano blu, non ci sono frasi che non siano di circostanza o da verbale di polizia giudiziaria, le segnalazioni al prefetto, i primi ritiri della patente, i test del sangue, le precarie condizioni di salute, il senso di languore di torpore di sconfitta nel ventre cupo dell’esistenza, non c’è rigore pensa, non c’è controllo, ho smesso di dirmi umano ed è successo, in quei momenti di tragica lucidità quando un dio mistico e rovesciato si para davanti agli occhi e chiede il conto ma solo a lui solo a quei tanti sfuggiti al Minotauro nel labirinto, nessuna seconda chance, ma dove cazzo sta la prima, non occasioni né pieghe esistenziali dentro cui rifugiarsi come morbida placenta materna, già della madre conserva un ricordo vago illanguidito da anni di alcolici droga e psicofarmaci latenti ospedalizzazioni il grigio cementizio di palizzate nascita della clinica separazione sessuale ed esistenziale e manie urgenti potenti che crescono e la cui eco si intaglia al pari di legno sballottato  nell’ultima tempesta, il padre non lo ha mai visto fermo al secondo piano metaforico di una casa popolare con l’umidità a castrare le pareti ammuffite e la pelle a generare malattie cutanee e respiratorie gli escrementi di topo e le prese in giro dei compagni di scuola c’è sempre un signore delle mosche nel cuore di topolino pensava disney quando votava  Hitler c’è sempre una muta richiesta di inverni da trascorrere a Dachau mentre la neve imbianca i comignoli fruttuosi e le scritte lapidarie e la scia immota di piedi nudi nel deserto bianco ritirata delle buone intenzioni come la condizione del tossico e del deportato nella limitata consistenza dei propri orizzonti con quella palizzata crociuncinata sotto il ponte della Tangenziale ed i panzer abbarbicati all’estremo gesto di difesa to drown a rose la wiking a berlino e il vino tedesco tutti a berne un sorso un sogno una trasparente traslucida disamina onirica di disfunzioni sociali, la risposta era nell’amore avrebbe dovuto dire il prete se non fosse stato impegnato nella sodomia il girone dei lussuriosi e la fiamma e la merda ed un castello sadiano di Silling dove Ignazio di Loyola ha ricevuto i gradi e dove la valenza fondante della claustrale limitazione delle prospettive ha impostato lo sviluppo di imperi, Alessandro pianse guardando i suoi dominii la fine oltre le montagne sacre ma solo perché non sapeva non vedeva non voleva vedere che la risposta più vera sofferta e gentile era nell’amore, è un uomo che barcolla distrutto che porta una croce nelle vene nei solchi e nello sguardo perso morto dicono che i deportati abbiano avuto lo sguardo azzerato il fiato condensato in un vapore di morte niente più sudore né battito cardiaco cortocircuitazione delle preoccupazioni alienazione benevolenza se questo è un uomo se questo è un tossico la dose lo  avvilisce lo  piega meglio regnare all’inferno, il vostro dio giudeo non mi avrà borbotta infastidendo una coppietta sorpresa nel farsi le canne, guardo questo uomo con occhi diversi, un vecchio me, un me andato, rovesciato, poco incupito ma molto ben disposto nei confronti della mera osservazione, mi astraggo simile a Mondrian ellittico e rosacrociano impostando quesiti abissali con le spalle ad un orizzonte di libri, il sangue, quanto ne scorre, seguo l’uomo uno stalker antropologico e disilluso, triste ma felice per via di quelle risposte che solo uno scalpello nella carne può dare, tutti i tossici sono in fondo ad un inferno in cui ogni istante è una eternità condannata a ripetersi il mantra dei buchi, delle vene infrante,dei diamanti ciechi risorti dopo una maledizione boreale che inonda di porpora le frattaglie del cielo, vorrei avere una parola di conforto ma nessuno ti può dare una mano, amico mio, amico di battaglie mai combattute non assieme di certo, sconfitto eroe di ogni conflitto interiore psichiatria e degrado sociale e periferie addormentate su loro stesse, questo è un posto dove non vivo più, un posto che scorre malevolo come un fiume di merda nella stagione delle inondazioni, una certa tendenza asistematica alla valutazione ecumenica una impostazione discendente di ipotesi ed opportunità, meriti di meglio ma non potrò essere io ad offrire la riparazione ai torti, distruggi tutto senza aver più pietà né commiserazione, distruggi per la pace interiore.





domenica 15 gennaio 2012

NERO





Inoperoso ed inattivo barcollo verso una privazione ancora maggiore, dicendomi che l’unica vera salvezza è la compulsiva tendenza alla comprensione, come cinico penitente e sadhu rinunciante con le carni chiazzate e arrostite di un cadavere sullo smashan pire funerarie accese di fuochi rossi a picco sullo scorrere muto del Gange ma qui siamo a Via Ostiense mentre l’elettricità sinuosa della Louisiana gorgoglia un sorriso muto, accampamenti massicci di zingari e centri sociali e la prefettura grigia di un grigio assoluto con gli uffici stretti pertugi di anomia lavorativa, sei un fallito dico stridente e incattivito dallo spettacolo new age sei un fallito un miserabile un profittatore nemico del degrado e lui mi guarda prima con pietà, quella pietà che si accorda agli sbronzi e ai traditori della patria, poi con crescente fastidio, invece le ragazze insalamate disfunzionali e stupide e naturalmente ciccione, ragazze che cercano redenzione nella sublimazione perché nessuno ficcherebbe mai un cazzo tra le loro ballonzolanti pieghe sudate, prendono le difese del loro padrone e maestro e guru supremo emettendo sibili da pipistrello obeso, voi potete anche succhiarmi il cazzo ma solo in metafora, bofonchio, solo in metafora capito? perché per quanto insulso e degradato io sia le vostre bocche sporche di panna e pop corn mi fanno cagare, preferirei farmi spompinare da un camionista cingalese con l’eczema e il vaiolo sulle labbra, il padrone capo il bondager dall’aspetto minchione non può credere alle sue orecchie, naturalmente sporche naturalmente impermeabili all’intelligenza, c’è liberazione sovrastrutturale in questi aghi ipodermici conficcati in queste elucubrazioni da studente fuori sede con psicologo a carico della mutua e i libri sbagliati, leggi troppi libri come dice mio padre leggi troppi libri sbagliati, la sofferenza è sofferenza non ci girare attorno, soffriamo tutti assieme, dandoci pugni calci, vorrei essere muto certe volte, non per paura delle conseguenze ma per timore della dialettica, il tragico e fatale errore di accettare un dialogo coi casi umani, troppi drinks eh fa lui tentandola sullo spiritoso ma la puzza della sua pancia e lo sguardo morto dei suoi occhi e le arpie alle sue spalle ancora mezze legate ancora sudatissime e puzzolenti come un carico di balene andate a male mi fanno capire che non c’è possibilità di ironia, di sarcasmo, la provocazione è roba per froci, la provocazione va bene se sei Fabio Volo ed ok diciamolo ammettiamolo porco dio prendi quel microfono e riempi questa stanza sporca e rossiccia e affollata di miserie antropologiche dillo a tutti cosa sei quali inadeguatezze ti portano a far finta di ascoltare drone a comprare cd senza nemmeno scartarli a piangere chiuso in cameretta ad ascoltare Tiziano Ferro drone per essere tendenzialmente appetibile dillo a tutti cosa te ne fai del bondage e di questa professione, non potevi laurearti come tutti in scienze della comunicazione e rimanere disoccupato o spacciare droga? sarebbe stato meglio, sarebbe stato più vero e sincero e genuino del sentirti elargire stronzate di coccole sotto forma di sadismo, sono l’ultimo rimasto del mio plotone perché gli altri capita l’antifona se ne stanno a bere al banco di alabastro c’è sempre un banco di alabastro quando sei ad un passo dal tracollo vorrei vomitare piangere e suicidarlo suicidarlo come una epitome di lardo e puzza sono l’epigrafe di me stesso un sepolcro imbiancato ma non di cocaina se vado nei bagni tutti inalano qualcosa fanno inalazioni di scorreggia e droga qualunque droga perché stanno ancora fermi a Timothy Leary e Spiral Tribe e a simili facezie non nichilistiche, ma io vi darei gli Avvicinamenti di Junger comprensivi di bombe a mano corpo a corpo e diarrea da trincea quel sentimento immoto che ti sconvolge lo stomaco mentre la pioggia batte forte e tutto attorno è solo nebbia, è solo negazione della vita e scoppiano colpi d’artiglieria, la morte è un cadavere crivellato non un viaggio di acidi in california, prendetevi il pacchetto completo se volete essere coerenti, io muoio muoio ogni sera ogni volta che mi trovo vicino a queste merdosità complessità non lineari questi palazzi bassi e cupi rovinati dalla solita fila di avventori di esteti del degrado di quello plastico finto poco poco sporcato dalla cacca secca, vorrei un gorgo nero un gorgo caotico di morte una resa dei conti un ragnarok senza cavalcate e senza napalm, certi odori sono buoni ma quello della stupidità non lo è mai, Charles Gatewood si sta rivoltanto nella tomba anche se non è ancora morto, tu uccidi quell’uomo come disse il giudice al  boia il giorno dell’esecuzione di Peter Kurten, non avrai una pensione facendo bondage ma potrai rimediare quella umana compassione che il mio nichilismo ti ha sempre negato, chi credi di essere mi domandi con voce sozza ed insolente quella voce per cui una volta ci si sfidava a duello lasciandosi belle pacche cicatrizzate in faccia, al professore di diritto commerciale lo dissi la conoscenza senza cicatrici è solo rumore ma quello fece spallucce e tornò ad illustrarmi l’ammortamento, l’ammortamento che nella sua estensione planimetrica giuridica è una morte, una congiura, un pugnale per espungere e disossare, ma lui queste cose non ce le vedeva ce le vedevo solo io, ad aprire il manuale e leggerci dentro di fondamentali cadute verticali persino sulle cambiali, tu sei un bondager ammortato, inutile, indispettito, leso nella sua residua dignità, nel suo orgoglio evidentemente sovrappeso, ma cosa ti ho mai fatto, esisti, ecco cosa mi hai fatto, esisti e produci stupidità, io, continuo, io sono sempre felice quando sono in compagnia di me stesso, quando penso alla madre di Aiko Koo e alle lezioni di danza già pagate nessuno dovrebbe pagare lezioni di danza in anticipo se in giro c’è Edmund Kemper, la morte per tortura, quella cazzo di testa asiatica decapitata sul cruscotto guidando attraverso il confine come suprema sfida, dai fallo, gli dico, fallo anche tu, andiamo tutti a morire da qualche parte come sfida come ordalia come giudizio di dio, non dirmi che hai letto Nietzsche perché altrimenti non staresti qui a proporre nodi giapponesi e a spacciarti per sensei una ipotetica ricontestualizzazione di Karate Kid sadomaso, la madre di Aiko Koo e quella di Elisa Claps e quella di Silvestro delle Cave redigo meticolose classifiche del dolore hit-parade dello strazio familiare, chi impazzisce prima chi impazzisce meglio chi impazzisce in maniera totale ed abbacinante una visione che chiarifica il senso dell’esistenza, cerco un dolore che è anche il mio, ma tu non puoi capirlo maledetto ciccione vomitato fuori da un cerbero senza microchip.


Seppellite il mio cuore a Via dell' Archeologia





Tutti combattono, come questo bus sferragliante che si adagia sull’asfalto divelto della Casilina, un segmento putrescente di intersezioni casolari diroccati e brughiera ocra, arsa dalla calura e dall’abusivismo, combattono contro un destino segnato dalla disperazione e dalla desolazione e dalle gare con le autovetture coi motori truccati, sfasciacarrozze in eternit e lastroni di marmo impantanati nella palude della morte mostri fetidi con la scabbia e una psicogeografia che digrada come un monte dei pegni, un golgotha di aspirazioni bruciate, combattono e sono combattuti, proprietà transitiva tra zarathustra e graffiti ma senza l’aura redimente di Bansky perché qui non ci sono i soldi, non c’è la dignità, non c’è la fica della Jolie, i vernissage e i finti cappucci di felpe firmate, Damien Hirst raccoglie squali sotto formalina e imbastisce costruzioni semantiche precise di dollari e dobloni, Milo Sacchi rinvigorisce la dimensione mortuaria della scultura di carne in piena contrizione di adipe frollato e gatti e cani scuoiati sollevati dai lembi cementizi delle periferie umane e li appende trafitti al soffitto mentre  il rumore si spande virale pieno e potente come una mareggiata di petrolio,  ma qui nessuno fa niente, non c’è senso, non c’è giustificazione, il cielo è grigio come una radiografia screziata di fumi e volute sinuose di pneumatici bruciati, fiamme vitree troneggianti sugli orrori della geografia romana, il traffico scorre a precipizio inondando di metallo il ventre sordido della nostra vita, guardo la battaglia la lotta disperata e ancora si evince quel senso profondo di perdita quelle macerie sovrastate sormontate dalla metaforica bandiera rossa mentre i pirati con la runa del tuono tutto sotto lanciano gli ultimi colpi e muoiono all’arma bianca perché, davvero, poco importa di chi verrà dopo, si lotta casa per casa, panzerfaust ed eroina e volti emaciati di puttane che barcollano nella luminescenza ambra di non-vita porno zombie e pendolari tra T-34 e Tigre e lamiere fuse con l’arte e la musica e le balle sulle espressioni di periferia parchi con le giostre sporche e spezzate ed infrante, come l’insondabile abisso delle nostre mute richieste, ragazzini e tossici a guardarsi persi nei loro rispettivi mondi, la felicità di un volto sporco, l’inconsistenza vitale a stringersi in confortevoli illusioni, filiali o chimiche, e combattono con vigore tra lampeggianti ed escrescenze e malattie e ricoveri e crisi mistiche ed epocali con quegli scenari sadiani di jihad psicomorfa e psicotropa, c’è solo sabbia tra queste mani callose, queste mani che tra stronzi di cane e merendine mangiucchiate e siringhe guardano il vento portarsi via granelli ed esistenze, una deriva notturna di sillabe monocromatiche la poesia del disagio e un degrado di ritorno mentre si vomita a turno in una olimpiade esiziale alle due di notte, queste sagome questi spettri da cappuccio in testa abbrutiti niente castelli alsaziani per loro niente evocazioni niente magia del Caos niente Zoos sulla Prenestina solo caimani tossicodipendenti da guardia e piantagioni di marijuana e motori rubati, c’è un’arte sublime in questa cacca di cane sparsa a chiazza sullo scivolo, proprio tra due casematte di legno marcito dentro cui i bambini del quartiere vengono a contendere la solitudine ai tossici barcollanti, questa periferia è un  pugno chiuso dentro il culo stretto dell’amministrazione, scorre tutto veloce frullato in una minestra di dolore e di pensieri cupi, un macellaio combatte contro un monaco, campi di morte e cattedrali di nichilismo e preti di frontiera che hanno una parola di conforto per le mamme zingare mentre si fanno spompinare dai loro pargoli e l’integrazione sociale e i manifesti abusivi e gli impianti ed i rave e le piazzole di sosta e le sirene svogliate della polizia, tutti fanno finta di adempiere una funzione, negri, immigrati, spacciatori, non ce la faccio più, dicono, dicono con poca convinzione perché per molti è solo una recita, un pessimo film, una risorsa multirazziale un bacio sulla bocca morente, e la pustola suppura in un rivolo di sangue, vedi le vene incrostate e gli aghi diventati di catrame viola a furia di essere conficcati nelle braccia e nelle gambe e sul collo, gemellaggio con lo Zoo di Berlino e con Zurigo e con le crack-houses americane Centocelle Skid Row un pianto di barboni fetidi e con le barbe sfatte e la morte sulle sopracciglia, c’è un Hitler morente senza Bunker tra queste aiuole curate dal Sindaco in persona durante i suoi comizi togliete questa merda togliete questa anima togliete questo ammasso di umanità che infastidisce che insolentisce perché il Sindaco è buono, magnanimo e non vive qui, combattono con le bandiere nere issate sui pennoni dei garage trasformati in uffici clandestini per l’assegnazione delle case occupate e uno ha proprio i faldoni gialli con i numeri di protocollo e che ti serve, domanda, sei uno sbirro, io e te tre metri sopra la paranoia, ride borbotta scatarra è un ras di quartiere un tragico residuato di tempi irsuti e canini e ferini, di branco, di banda, di batteria,  rapine e droga e 648 e un corollario di assalti a portavalori e una madre morta mentre era in galera manco il permesso per andare al funerale, lui combatte non per soldi non per nulla ma solo per odio per mancato finalismo rieducativo, chi si spezza la schiena combatte contro tutto mulini a vento privi di copertura assicurativa, l’Hitler morente guarda tutto con cupa accondiscendenza, è solo, privo di difese, di affetti, un titano affetto da malinconia e da mari di nebbia scruta la sagoma dispersa delle torri dei palazzi di edilizia anti-umana, qualcuno ce la fa, qualcuno vince, un leone morto elevatosi sopra tutto che dismette il cappuccio e vive e ama e si allontana senza rinnegare, le scritte sulle mura aureliane e l’aventino e san saba senza quella tracotante supponenza, accampamenti nomadi e derive pagane ed altari sacrileghi, qualcuno la sua battaglia l’ha vinta, ci parlo guardando fuori il nulla quelle macerie fumanti il reichstag sulla Togliatti dove balordi e centro carni e polizia stradale e comitive mongole barcollano nella totale mancanza di un equilibrio istituzionale, a ciascuno il suo nella reminiscenza e parla con tono fermo, deciso e malinconico, profondo, c’è la consapevolezza dell’enorme forza, quel senso titanico da terra del tramonto nonostante i tramonti su Roma siano di sangue e abbacchio, girare vagare senza vedere nulla e poi accorgersi che il primo approdo è dentro se stessi, con quel senso caldo ed epifanico di stella cometa sdilinquita verso la linea d’orizzonte a cadere tra case occupate e parchi e giardini e parcheggi di scambio, vita-non-vita un colossale inganno diventato ratio vitale che nega la vita nel momento in cui se la trova davanti, pochi hanno vinto e saranno banditi dalla storia e rinnegati e cancellati ma saranno sempre vivi e trionfanti in questo nostro cuore, e lei ce l’ha fatta, lei sta lì a parlare di un mondo ctonio abbattuto sotto il maglio tellurico dell’inverno avanzante, l’inverno dello scontento universale, saremo tutti processati a Norimberga a rendere conto delle nostre domande ma almeno ci saremo divertiti e quando ci indicherete con dito accusatorio borghese mellifluo e merdoso vi diremo ridendo “avete sbagliato ad andare a dormire presto”.

venerdì 6 gennaio 2012

WHOREMONGER





Gesù, ma no Gesù non c’entra niente, come puoi anche solo lontanamente pensare di invocare il nome del nostro salvatore e redentore, di ictus sotèr (non Mulè, of course, anche se ci troviamo nello stesso Municipio adesso) in questa maldida favela di motorini rubati, antidepressivi e baracche di fanghiglia e materiali di risulta, abbiamo tutti una menzogna pronta all’uso, ma adesso aiutami ad insabbiare questo stronzo di cane, questa cacca sbrindellata con gli intestini di fuori per non rispondere del drammatico capo d’imputazione di omissione di soccorso ad animale, io pirata della strada io genocida di ricci, la tangenziale con nomi presidenziali l’abbiamo lasciata alle spalle e ci siamo rifugiati in questo piazzale industriale sormontato dal profilo grigio della fabbrica, capannone mi correggi mentre raschio via gli occhi  dal pneumatico, non ci vede nessuno, d’altronde a parte sfuggenti clienti di trans e di mignotte slave con le tette generosamente esibite chi mai potrebbe sorprenderci, non abbiamo una telecamera per far impazzire youtube, ma saremmo comunque surclassati da artisti olandesi e da Milo Sacchi e da ragazzini chicanos che fanno le smorfie da duri mentre sminuzzano cuccioli paffutelli, o come cazzo si fa come come cazzo si fa, avrei voglia di un panino, andiamo sulla Tiburtina dopo, dico, e lui contrito e quasi alle lacrime continua a farfugliare gesù come fosse un mantra di autoconsapevolezza, stai calmo la satori zen non la raggiungi qui, piuttosto vatti a fare una scopata con quella minorenne scosciata pago io, offro perché devo toglierti dai coglioni e questo non lo sto pensando ma proprio dicendo, sei un infame mi dice, ma accetta i soldi e va ad infrattarsi con la moretta quindicenne, così almeno pure lui avrà sulla coscienza un reato, diventerà uno pseudo-pedofilo per qualche minuto, mentre lei gli regge il cazzo in mano e nasconde i soldi nella borsetta finto-Gucci, almeno le bianche non puzzano sono discretamente pulite e presentabili, alcune persino molto carine, non perderci la testa non sposartela urlacchio divertito come non mai, mi diverto con poco, e quel poco è sempre un abominio, pedofilo di merda lo sento dire massacratore di cagnolini indifesi, cagnolini borbotto merda sulla ruota piuttosto che colpa ne ho io se questa strada è una palude nera, priva delle più elementari forme di illuminazione, ecco quel che succede quando ci allontaniamo dalla Stazione Termini, ma non può più sentirmi perché sta contrattando là da qualche parte nell’oscurità con la troia, poi si eclissano definitivamente, attorno a me solo il cancello del capannone e delle baracchette zingare spente e morte, forse abbandonate, questo è un posto di paura, dovrei avere paura, ma ora sono sporco stanco e sudato, ho un cane da buttare al cesso e tanto sonno, sento le palpebre chiudersi lentamente, un fazzoletto bianco ridotto a cencio rossino con i resti filamentosi delle budella pelo che puzza e santoddio quanto quanto durerà questa storia, penso ai miei soldi il danno oltre la beffa anzi la beffa oltre il porco dio, la carcassa è franata in una pozza di catrame e sudore per la gioia degli animalisti darò degna sepoltura in questo cimitero di rumeni e di albanesi lavoratori indefessi ed altrettanto indefessi stupratori sbronzi, proprio mentre sto principiando un gorgoglio roco di stomaco ecco la donna apparirmi davanti, è mezza nuda coperta di terra e fanghiglia e puzza di natura selvaggia come una grizzly woman rimasta muta e viva, chi sei fiammetta cicogna, penso tra me e me, ma più probabile tu sia una barbona stuprata, la donna sta ferma silenziosa e guarda verso di me, devo avere un aspetto orribile piegato in avanti con le mani nello squarcio del povero cane diventato parte integrante della meccanica della mia macchina, lei certo non eccelle per contegno raffinato e per aspetto aristocratico, non avrei dovuto mandare quel coglione a scopare, e adesso?, adesso è un lungo istante ininterrotto, i suoi lineamenti sono nascosti dalla pesante consistenza della notte, mentre io sono irrorato dai fari della mia stessa autovettura e sono nudo nudo a me stesso con la vergogna insensata del cane ammazzato, aiutami, dice, ha una voce irreale, spettrale, spezzata da un dolore così intenso e profondo che posso quasi percepirlo, aiutami, aiutarla è un concetto pernicioso e pericoloso e se quello stronzo si fosse già fatto svuotare i coglioni dalla troietta minorenne ecco avrei qualche chance maggiore di essere d’aiuto, piegato sulle ginocchia la guardo e sto zitto, aiutami continua lei come se mi avesse preso per un telefono amico, aiutami, ho capito, bofonchio, ho capito, aiutarti, che ti è successo ?, non lo so, non me lo ricordo, ho bevuto, anche io ho bevuto sghignazzo senza motivo, il dramma diventa una festa stronza, sono irreale per quanto sono inopportuno, torna il minchione, abbottonandosi la patta e proprio mentre mi viene vicino si accorge rimanendo con la bocca spalancata della donna-fantasma emersa dalla boscaglia, e questa chi cazzo è? sa solo domandare sperando che qualcuno assecondi la sua bifida curiosità, ma non gli darò questa soddisfazione, diciamo che avevamo un problema, ora ne abbiamo due, ma porco dio scandisce con teatrale trasporto, porchissimo dio ribadisco, come è andata nel bosco con cappuccetto rosso?, mica male mica male, per un attimo sembra riemerso dai suoi insondabili pensieri, bella bocca brava con le mani, ok ok continui a recensire dopo adesso vediamo la milady qui come possiamo sistemarla, dobbiamo chiamarti la polizia?, e mentre lo chiedo il mio sodale sbianca come un fantasma gotico come un polidori otrantino, ma tu sei scemo completamente scemo, la polizia qui con la minorenne che mi sono scopato, il cane frullato e una che probabilmente è stata violentata, ce la accollano a noi questa lo sai meglio di me, abbiamo anche un tasso alcolemico superiore al consentito, sorrido, si ma quello è un problema tuo, sei tu a guidare, fa presente, sei un amico ed io che ti ho pure pagato la mignotta, ma che cazzo, sarebbe come se dicessi alla polizia lo sapete che si è andato a scopare una mignotta bambina mentre io pulivo la macchina dalla carcassa schifosa della bestia, la polizia sarebbe entusiasta di venire qui, manco lo SWAT, manco le leggi della repubblica italiana vigono qui, siamo in amazzonia e a Sherwood, la dura legge della favela, ok ma adesso sentiamo la risposta della donna, no niente polizia, potreste portarmi in ospedale, ma in ospedale in quelle condizioni sarebbe come chiamare la polizia, hai ragione annuisce lei, dove abiti?, lontano da qui, al centro, e cristo, chiamiamolo in causa ancora dai, come cazzo ci sei finita qui?, portarla al centro in quello stato non esiste, dice il mio amico, se ci fermano  siamo rovinati, noi siamo già rovinati comunque si è una obiezione abbastanza precisa e puntuale, ne convengo, e allora?, mica possiamo lasciarla qui, no non ho detto né pensato questo, chiamiamole un taxi, ma stai scherzando?, certo che sto scherzando!, qualche amica, qualche conoscente nei paraggi?, aspettate, dai pantaloni sventrati e lerci estrae un telefono cellulare, non si è rotto per fortuna la sento tirare un sospiro di soddisfazione, credo stia consultando la rubrica, chiama, ciao! lo dice come se non fosse successo niente, come se non stesse parlando con due perfetti e malmessi sconosciuti sbronzi, sporchi di sangue, di intestino e coi pantaloni avidi di fica minorenne, senti Simo posso chiederti un favore si si sono con due miei amici, io sobbalzo a sentirmi definire in quel modo, per me amico è uno che ti paga cinquanta euro una bella scopata una scopata che possibilmente finisca in escussione a sommarie informazioni perché la mignotta poi è stata aperta in due come un abbacchio, e loro pensano sia stato tu sai che ridere tutti a svagare lo sapevo lo sapevo che lo avrebbe fatto uno che legge quelle schifezze uno che scrive quelle immonde esacerbanti atrocità doveva uccidere era scritto era scritto nella genetica e in Lombroso riesumato e riabilitato per l’occasione per condannarmi e poi tutti depressi e scornati quando capiscono che non ero stato io ad ammazzare la mignotta solo fortunosa coincidenza che fortunello ma sai, si borbottano ammiccando, potrebbe essere solo un errore giudiziario, una svista degli investigatori, perché lui è colpevole a prescindere, che dice questa tua amica allora?, potete portarmi da lei sorride, abita ad un chilometro da qui, ma davvero non ti ricordi che cazzo hai fatto prima?, no mi spiace, ti dispiace, non dovrebbe dispiacerti, su andiamo va.