mercoledì 1 febbraio 2012

In questa Roma





Non c’è neve in questa Roma, non ci sono apparentemente che luci e ferite e cicatrici e alberghi da poco prezzo e treni che sferragliano verso il nord, verso una meta improvvisata lanciata a velocità tale da rasentare l’accelerazione bianca crudele estatica, quel picco montano di cemento abbarbicato sulla tangenziale e sulla geometria euclidea della droga, capannelli di marocchini e di pakistani e globalizzazione dello spaccio ragazzine piangenti una dose un pompino due dosi una scopata dolorosa nel culo  glabro e virginale di liceale poco poco uscita da I Cesaroni e dai libri della Pijola, discoteche per minorenni e pedofili pingui rattristati e razzisti, non c’è neve né speranza, un vento pieno di fumo carico di escrescenze tumorali e di peep show con quelle sagome tra lo scalo di san lorenzo e porta maggiore e la casilina e le luci arancioni e le comitive di punkabbestia che negano dio e la famiglia e si drogano coi cani fumando calumet della insipienza sociale e barcollando poi tra fontanelle sfasciate acque nere e pioggia, pioggia di piombo grigia densa e macchine che li evitano per miracolo, non c’è neve oggi, non c’è stata ieri, mentre il treno sferraglia sinuoso e pedante rallentando la sua corsa triste, il mio sguardo perplesso il mio viso incorniciato dal cappuccio nero gli occhi spenti e desolati dopo un viaggio lungo riflessi carnicini e purpurei e poi neri di questo finestrino opaco lercio sporco sudicio, compagni di viaggio non umani, compagni di viaggio borghesi senza la metastasi della malinconia senza orizzonti da frullare nel sordo gorgogliare della motrice binari sedimentati tra paesaggi urbani porti cieli e foreste e mondi a picco sul cuore, cantano di carlo giuliani e ci fanno film e spari e canzoni colorite e colorate e buchi sulle braccia e la nientificazione totale abbacinante lo sguardo vorace e cieco, compagni di viaggio logorroici e io chiuso nel mio mutismo isolazionista e socialmente deprivato con le cuffiette a scavare solchi sonori nel mio cervello chiuso in me stesso chiuso nella memoria chiuso in ciò che temporaneamente ho  lasciato e che presto ritroverò, e loro pontificano ciacolano uggiolano come cani battuti presi al guinzaglio e all’amo da una vita di anomia borbottante e bestemmiante, sequenza feroce di disfunzioni, quei mostri che ballonzolano draculeschi nel cuore di ognuno di noi ma che alcuni si ostinano a lasciar fermentare, punkabbestia chiedono l’elemosina da spendere poi in pessima birra e in altrettanto pessimi concerti da centro sociale, giardinetti curati con estasi e siringhe, trasfusioni di aids sotto lo sguardo sereno del cielo di roma, questo cielo senza neve ma con tanto vento e con quell’odore fumante di pollo arrosto e di maestà, gretta, insolente, insensibile, la città è chiusa come sono chiuso io, mi rivolgono la parola sperando in feedback apprezzabili ma non ho tempo da dedicare alla conversazione, sono in contemplazione del mio volto, guardo gli occhi nelle iridi nelle pupille nel nero che vortica e si arriccia e gorgoglia come un canto di maldoror mentre fuori i graffiti dell’ostiense e del testaccio e le mura franate e mai sanate e il dolore mai rimarginato scorrono fusi tra loro in una grandguignolesca parafernalia processione di strazi e di rimembranze cimiteriali, mi sono dovuto allontanare e perdere tutto per ritrovarmi, per ritrovare il sapore di queste ricerche di queste esplorazioni, we found love in a hopeless place, attraversando le terre di confine il settentrione del nostro incontro tra la neve a passo lento con il fiato a condensarsi in nuvole di vapore e fuori il grigio ed il bianco e un sole pallido lunare smunto a riflettersi sui tetti morti delle cascine alberi scheletrici altrettanto grigi e una linea di terra e cielo tutta agghindata di niente, un silenzio irreale nonostante stiano parlando, e il treno scorre e si disperde lungo la campagna, sempre più giù, sempre più lontano, c’è sempre un motivo quando ti guardano dentro senza sapere chi sei, da dove vieni, e per quale motivo ti sposti sui segmenti di acciaio elettrificati,  c’è il motivo del morboso moralismo, il considerarti personaggio e persona non grata, l’asfissiarti di domande stronze e di risposte che essi stessi formulano senza attendere che tu apra bocca, se mai la aprirai, non è contegno zen, né misantropia, o timidezza, è solo sonno, sonno e poca voglia di condividere te stesso con queste nullità, le parole andrebbero centellinate e riservate a chi le merita, non sparse a profusione in uno slancio di ecumenica condivisione, le vostre disfunzioni stronze non sono le mie, le vostre paranoie plastificate debitamente e con tanto di formale timbro di oscurità non mi appartengono, guardo in maniera obligua e sbadiglio, nel loro  tragico tentativo di sorprendermi di scioccarmi di provocarmi io non faccio che ululare di sonno e di stanchezza e di malinconia, agevolare la vostra crescita individuale non appartiene alla mia ragione sociale, continuate pure a nascondere i vostri scheletri nel mio armadio e a sentirvi liberi e migliori per questo, non ve lo impedirò perché in fondo sono buono, di quel genere di bontà che un giorno uccide, e state là in silenziosa ammirazione con gli occhi trasognanti della luce di barbara d’urso sperma divino catodico reiterato nel samsara del gossip e della cronaca nera, una pessima equazione non risolve enigmi antropologici, troppi cani hanno pisciato sulle vostre scarpe troppi gatti hanno finto amore e passione per i vostri croccantini, sono una persona migliore dell’ologramma che avete formulato con l’assennato giudizio della sbronza serale del vostro incedere scontato di gossip underground, questi viaggi portano al golgotha crociuncinato alla rivelazione ultima di treni sfrigolanti e vapori terrosi e neve sciolta e la bufera e il vento glaciale, a guardare di fuori, il sibilo e la furia degli elementi, in questa Roma non ci sono che dimensioni spaziotemporali alterate e discontinue e parate egotiche sbraitate nel nome di un grado sempre maggiore di solitudine, non c’è che carta, non c’è che cartone, conglomerati di barboni e di carità pretesca e di barbieri etiopi dalle forbici oleose di psoriasi, c’è un personaggio in fondo al tunnel, la proiezione di chi non sa nulla ma semplifica nel nome delle convenienze, questo non è un gioco, non lo è più, è un incontro, una epifania, una redenzione, una catarsi, è il volto rovesciato e meraviglioso di noi stessi, la negazione della negazione, l’ultima presenza in cui si giunge a consistere di quella fiamma, di quella vitrea baluginante lingua rossa che arde senza pace, è la nostra Roma,  in cui a ben vedere ci siamo soltanto noi due.

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