domenica 5 febbraio 2012

Come perdemmo la nostra innocenza






E’ una linea discontinua tracciata con vernice nera sbilenca, a perdersi lungo la tangenziale tra guard rail scrostati e indeclinabili solitudini metropolitane, ossa macinate ossa frullate spezzate dal contenzioso esistenziale di questa deprivazione, notti di cappuccio nero e di cattiveria e di cattiverio camere di sicurezza e anomia da commissariato a rendere sommarie informazioni testimoniali, escusso come scosso come uno stregone uno sciamano potenziato dalla droga e indagato e inquisito non giudiziariamente ma esistenzialmente, inondazioni disperate di psicologia ASL e formalismo burocratico a nessuno importa davvero un problema perché un problema non è mai sociale ma individuale e nessuno ti aiuterà mai, basta con i miti del buon selvaggio ed ascoltiamo i Coil guardando il nulla della notte il verde neon della farmacia notturna e i tremori ed i tremiti ed i languori pentecostali di sofferenza e il sudore e i tatuaggi sbafati dipinti da mano incerta tra Parkinson ed aids, la trasmissione volontaria del nichilismo in cattedrali gotiche incistate nel ventre cavo di Roma dove i parchetti diventano coreografici come Auschwitz e il cielo di catrame e kleenex, locali porno e saune e massaggi e parlour e bordelli minacciati dal moralismo puntuto e pretesco e pedofili di belle speranze in partenza per Bangkok, a quante orribili inutili persone ho concesso libero accesso tenendo fuori chi davvero avrebbe meritato di entrare, a quante somatiche inconsistenze ho permesso di accompagnarmi in viaggi tra La Barbuta e San Basilio portando carichi di morte e di solitudine metallica, disperazioni anodine e isolamento alla Kerouac in angeli di desolazione la mia metaforica torretta di avvistamento ma senza satori zen senza ordalie e consuntivi con quel silenzio avanguardistico speso a rinverdire i fasti di John Cage e John Zorn notte dei cristalli e frantumate le ossa con quel fiotto di sangue e bile arteriosa e marroncina, sto morendo mi disse e stava morendo davvero con la siringa nel braccio a scurire la vena e a dare consistenza bluastra alla carne un alone in virale espansione, la bava bianca e gialla e rossa, gli occhi vacui ispessiti dal dolore e dalla malinconia dai flash della notte dai fari della macchina, ed i cazzo i cazzo i cazzo quelli terribili da autogrill e da distributore povero di benzina con le siepi istoriate di preservativi spermatici fazzoletti cornetti smozzicati e lacci emostatici e copie consunte de Il Messaggero, la situazione politica con uno stronzo di cane sopra spiattellato come una frittata di merda essiccata, sto morendo borbotta ed io lo guardo in muta contemplazione non ha bisogno di aiuto mi dico e lo dico perché sono un vigliacco non ha bisogno di aiuto perché non saprei come darglielo chi chiamare oppure, più probabile, saprei chi chiamare ma non giustificarmi davanti a dio e alla legge, così compongo il numero di emergenza e richiedo una autoambulanza mentre su strada alcune puttane volgono lo sguardo e scrutano con finta partecipazione, tra contrattazioni cocaina e sberleffi, la nostra fine, la perdita della nostra innocenza, non è modo di morire questo, tra asfalto mignotte e merda di cane, quale cazzo di epitaffio potrò mai darti, quale ragione ci ha spinti qui, e no mi dico non voglio averci niente a che fare, che il destino ci trovi sempre forti e degni il volto di Degrelle in foto bianco/nera a campeggiare su quel manifesto che ti avevo dato, segnale rituale di buon augurio quando sei andato a Londra a cercare un futuro ed ora, tragica ironia della sorte, stiamo consumando la fine, la fine ultima e abbacinante, proprio in Italia, a Roma, in una periferia eterna e cancerosa, tra palazzi a picco sul grigio e ragazzini che giocano all’hip hop tracciando tag e graffiti, la metempsicosi geografica e musicale la traslazione delle anime e l’innalzamento della soglia di dolore, ti hanno lasciato solo a nessuno è fregato un cazzo del sapere come sia cominciata e perché,  non c’è nulla di ludico nulla di ricreativo è quel vuoto da riempire che prima riempivamo con Evola e Nietzsche e che poi ha assunto altri connotati, è la pietà che ho sempre detto di non poter provare e che invece mi si manifesta nuda e splendente in questa notte di neon e lampeggianti, è la morte dell’onore, non sono una persona migliore di te, lo sappiamo entrambi ma tu stai morendo e non puoi dirmelo, stai gorgogliando bava ed io sono fermo vestito di nero e con le mani sporche di colla, la macchina con il bagagliaio mezzo aperto i rotoli di manifesti appiccicati ai sedili e le rune del tuono nella mente, cosa stiamo facendo come ci siamo arrivati come siamo giunti a questa fine ingloriosa, nemmeno Goethe quando chiedeva luce più luce sul punto di morte si sarebbe immaginato questo epilogo tra le Torri cementificate di Roma, luci di finestre irreali fortezza bastiani di solitudine, graffitari ascoltano pessimo hip hop oltre il cavalcavia e le trans gorgheggiano canzoni di laura pausini trionfi ispanici e due clienti cocainomani commentano l’ultimo libro di Fabio Volo la lettura soprattutto quella inutile ed indolore rende liberi, e tu mi stai morendo davanti, mi stai morendo a pochi passi, non muovo un muscolo quasi nemmeno respiro più, sono paralizzato, glaciale, ibernato, ho stalattiti appuntite che scavano e cesellano la carne e il fiato condensato in nuvole di vapore fa freddo ma io sento freddissimo, vorrei l’ambulanza fosse qui ed ora l’hic et nunc jungeriano di tor pagnotta le scritte murali un nuovo presente la rimembranza il funerale le braccia alzate da pochi intimi per una morte così sconveniente così tragicamente contraddittoria, finirai nel novero dei camerati che tutti discutono e che nessuno vorrà considerare un camerata, per questa fine pagheremo caro, ma tu stai pagando di più il prezzo più alto ed io continuo a ragionare in termini plurali, in termini di mio stronzo ego, di satrapiche dimensioni metropolitane, è una Roma chiusa indifferente cinica su cui svetta una luna madreperlacea candida come il cesso del distributore e gli schizzi di merda lambiscono i nostri volti tra stelle comete e morte e dolore e sofferenza e io non posso dire altro, se non che mi dispiace e mi netterò la coscienza mettendo a soqquadro le mura contendendo ai graffitari del cazzo ogni singolo centrimetro coprirò le loro tag e i loro messaggi con il mio odio con la mia morte interiore con le mie svastiche con la mia retorica, abbiamo sbagliato tutto, io forse più di te, perché tu lo capisci mentre vai abbandonandomi tra bolle di sangue e rantoli e convulsioni e mute richieste di empatica compassione, io sono fermo nel mio mondo perduto di codici di formalismi e di rituali, verrà il giorno della espulsione per indegnità e capirò di essere stato ingannato da me stesso, di aver tradito la parte più importante del mio essere, ti dedicherò questa scritta mentre l’autoambulanza non potrà che constatare il decesso e ripartire vuota nell’attesa cupa e lancinante dell’arrivo della polizia.

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