domenica 5 febbraio 2012

Un Padre






Un padre ha diritto di fare del male, perché un padre è tradito nella biologia e nei sentimenti e nella atavica riproduzione ferina ed animale, un padre colpisce uccide dilania e in primo luogo lo fa con se stesso senza traccia alcuna di rimorso o di compassione, un padre è spietato e draconiano e sincero e nudo davanti a se stesso, un padre taglia le sue braccia con un coltello e fa sgorgare stille di sangue quando il dolore diventa insopportabile quando eradica e travalica i consunti limiti mentali e morali della sopportazione e diviene vomito totale che spinge sull’esofago, ci penso mentre ti vedo stesa sul letto assonnata e rapita al tempo stesso da questa cruda rappresentazione del dramma paterno, la leggenda di caino e la maledizione della solitudine errabonda su una terra depopolata, non è una storia di vendetta ma di verità un padre lava sempre l’onta in primo luogo per se stesso e poi per amore filiale, c’è quella scena di raggelante crudezza in cui, con piglio sicuro e conati di rabbia e frustrazione, lui va in cucina a gettare nel secchio le ceneri della figlia morta, un pugno allo stomaco niente facile splatter consolatorio non c’è sangue ma una crudezza senza pari un coltello che possiamo sentire scavarci nell’anima e ci guardiamo come a dire questo è il limite questo è il punto di rottura il ciglio dell’abisso su cui Nietzsche e Sade si fermarono a guardare di sotto lo zabriskie point per ammirare il brodo primordiale dell’umanità negata, non è questione di odio ma di sincerità, c’era stato l’hardcore minimale e crudo di P. Schrader quella propensione calvinista al male ontologico alla miseria morale alla navigazione a vista tra neon e bordelli e larvate metafore di dannazione ma qui non c’è più nessuna metafora nessun sofisma nessun abbellimento ornamentale c’è un nome sparato in faccia alle vittime torturate macilente e fatte a pezzi c’è la pornografia e la vendetta di un padre che porta fuoco vento e disgrazia la redenzione è un volto rovesciato che guarda da dimensioni ctonie il motore invisibile che fu Kali e Arjuna e riferimenti culturali per devastare la carne possono piangere possono implorare ma lui è sordo e cieco e illuminato da questa aura rosso-iridescente che pulsa e si spande in virali volute, porta giustizia e verità e lo fa col piglio sicuro del cinico greco la lanterna avanti a sé per spingersi più a fondo nel cuore di tenebra che è la condizione umana, ognuno di noi ha la sua tenebra le sue fobie le sue idiosincrasie il suo passo incerto nella malsana palude nella mancata conoscenza e nella trepidante attesa di un evento funesto, sono città di ghiaccio ad ospitarci e te lo leggo sul volto l’ho letto ogni singola volta che ci siamo abbracciati ogni volta che ci siamo parlati o semplicemente rivolti la parola, è quella forza quella costanza che davvero rende le persone ulteriori rispetto al mare della vita è quell’oceano lautremontiano richiamato da Carmelo Bene dalla sofferenza potente e dal chiudersi a riccio contro la vita nella celebrazione della vita stessa ogni birra ogni sguardo perso sulla cresta di schiuma bianca nelle luci basse e soffuse in ogni bacio in ogni singola nota ascoltata in ogni reminiscenza di vita in ogni nichilismo lasciato a decantare ogni attimo di pausa, è giusto sentirsi stanchi e deboli a volte abbandonarsi all’abbraccio e alla protezione alla fiducia perché per troppo tempo siamo rimasti fermi a guardare la vita scorrere come il flusso del traffico perso sotto il tramonto,  a sputare sulle macchine dal cavalcavia e non era debolezza ma propensione al martirio al disossarsi a porre e porgere domande a cui nessuno, noi stessi in primis, abbiamo voluto rispondere, i viaggi senza ritorno il pollo fritto riarso a Pattaya sulla sabbia sporca e claustrofobica con la merda di ritorno, ti guardo e sei piccola e grande al tempo stesso, forte e fragile, determinata e gentile come questo padre, questo padre che semina tempesta su strade australiane, c’è una protezione che non è fallimento che non abdica alla autonomia della persona abbiamo un orgoglio simbiotico, il sonno inizia a vincere la sua battaglia e i fotogrammi compongono forme sdilinquite caotiche la violenza rimane inalterata ma il senso ora è diverso, ora che ci siamo, ora che siamo qui ed assieme, ora che quella solitudine è un ricordo un cilicio per rammentare un memento di troppe notti nomadi e passate all’ombra del nulla a cercare qualcosa che pensavamo fosse fuori di noi e che invece era qui, in questo momento.

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