domenica 4 dicembre 2011

Frammento I


Il tempo si è perso dietro lo specchio, dove occhi accademici scrutano la fisionomia dell’orizzonte sorseggiando pessimo caffè.
L’hanno portato qui, proprio perché è degenerato. Inesorabilmente. Un caso umano, o inumano, frettolosamente espunto dal consesso sociale, e rifluito su posizione di annichilimento guerrafondaio. Nudo nel mezzo della strada, con quel corpo istoriato di cicatrici, grotta di Lascaux vivente, paleolitico e pornografico, la carne marcia, avvizzita, avvinazzata di pessimo liquore, e sta là, in mezzo all’incrocio ad urlare ed urla qualcosa di indefinito un caotico confuso e magnifico borborigma che si innalza fin sulla scia sagittale di un aereo di linea, squarciando quel grigio fumigoso.
Un motivo per portarlo via.
Per considerarlo un fattore di ordine pubblico.
Una emergenza.
Una ferita, un cortocircuito, tra quei bravi passanti che si evitano di fretta e che in uniforme di rispettabilità setacciano i marciapiedi olezzanti di piscio e di sapori etnici, quei passanti che fanno finta di leggere le pagine di economia dei quotidiani e che invece spizzano come fosse una partita a poker la carne mutila dell’uomo che ulula.
Lo guardano, lo bramano, sorridono senza alcuna forma di ironia, si interrogano sui valori che non ci sono più e come si fa come cazzo si fa dove è lo Stato e lo stipendio degli assistenti sociali lo paghiamo noi, noi tutti borghesi – le tasse ed il cappuccino e la demagogia alle sette e trenta di sera.
Diagnosi di ordine pubblico – l’ordinanza contingibile ed urgente, che ha fatto del sindaco un accalappia-pazzi, un cacciatore senza lupo cattivo. La diagnosi, mentre continuano a sorseggiare quel fetido caffè, si stampiglia in incerta grafia su una ricevuta da concerto pop- formulario e codici e commi, e dizione antimedica. Molto formale, rigida, impostata.
Dovremmo portarlo via ? chiede con un accenno di disgustato consenso a se stesso lo psichiatra, mentre Ippocrate si suicida con una calibro 765.
Psichiatra da ASL con fascia di reperibilità e responsabilità da travet aziendale. Mi verrebbe da chiedergli quale è l’ultimo libro che ha letto, ma non c’è bisogno perché gli dico con evidente ghigno – mangia la merda.
Mangia la merda. Ed insozza la pubblica via con quelle tronfie esibizioni da Circo Barnum della carne martirizzata. In altre epoche lo avrebbero preso per un penitente. Adesso, invece, adesso che ci siamo civilizzati e ci siamo dati leggi, codici, decreti presidenziali, e una costituzione di libertà e trattamenti sanitari obbligatori, questo uomo che canta urla e mangia la merda è considerato un problema.
Perché puzza, infastidisce, e ricorda a tutti i passanti, gli impiegati e gli studenti che noi viviamo nella merda.
Una vecchia insolentisce le nostre perplesse figure.
Ai suoi tempi, borbotta mentre si accatasta contro un muro sporco di murales mongoloidi e manifestini giamaicani e cingalesi, regge una busta di plastica dentro cui albergano i sogni dei gatti del quartiere, ai suoi tempi biascica c’era più rispetto più decoro e la gente moriva di scorbuto e dissenteria ma moriva felice. Ai suoi tempi i pazzi non esistevano, perché non li vedevano mica in giro – non esisteva nulla che non fosse visibile, hic sunt leones. Un cosmo ristretto di borgate cementizie e vagamente escrementizie, l’abuso edilizio come volontà e rappresentazione.
Tutti si lamentano, qui, ma non fanno nulla, convinti che lamentarsi sia già un surrogato del fare – e mi sbracano le palle adducendo ogni genere di lamentela e scusa e parlando e cianciando, vani soliloqui che mi entrano nel cranio mentre lo psichiatra è ancora intento a decidere se firmare o meno quel foglietto da rosticceria della psiche.
Le fogne non vanno, non ricevono l’acqua piovana. Le strade sono sporche. Il tram non passa mai. I cani fanno la cacca. I vicini di casa hanno sempre lo stereo troppo alto, e nessuno è mai vicino di casa di se stesso.
I lampeggianti dell’autoambulanza irrorano di sfumature azzurrognole un lembo di strada, mentre attorno poliziotti, vigili urbani, pompieri e semplici curiosi intessono discussioni che spaziano dal sublime al ridicolo.
Mangia la merda, certo, ma la merda la mangiamo tutti. La differenza sta solo nel senso recepito di una vaga metafora, lui non ritiene, non ha sovrastrutture e così pensa di apparecchiarsi ed imbandirsi hot dog marroni di cacca filata, mentre gli altri si accontentano di farsi inculare a sangue dallo Stato invisibile.
Un ispettore di polizia ha fretta perché dovrebbe smontare, ed un figlio in palestra che mica si prende da solo. Lo psichiatra è combattuto ed armeggia col cellulare, è giovane, lo psichiatra non il cellulare, ma non abbastanza per padroneggiare le dinamiche comunicative di pennini e no touch e perdio qui ci stiamo facendo notte anche se in realtà è meno del tramonto. Lo vedi dalle ombre lunghe, che si flettono nel gorgo rossiccio dell’orizzonte tra lo sferragliare confuso dei treni e le mura annerite di San Lorenzo.
La diagnosi è che il tizio marcescente è pazzo.
E che lo dobbiamo caricare e portare via.
Perché mangia la merda.
Perché è un degenerato. Una costola impazzita di un sistema che tollera tutto fuorchè la negazione di se stesso.
Dieci anni di medicina, tra corso universitario e specializzazione e tirocinio, esami, tasse, file in segreteria, frustrazioni occipitali da colloquio con docenti baronali, fredde notti trascorse in pronto soccorso ad accudire barboni anomici, libri libri libri, voti voti voti, il mantra della scienza prestata alla burocrazia normalizzante, ed ora se ne esce con quel pazzo, propedeutico all’internamento. Lacan, evidentemente, non è molto frequentato nelle ASL.
Siamo tutti in fila, ma invece di procedere alla fucilazione tentiamo con rabberciati espedienti di psicologia spicciola un contatto; frasi smozzicate, buonismi latranti, banalità, e lo psichiatra tace, sorride, smanetta col cellulare, probabilmente sta organizzando e pianificando i pompini serali, e io ogni tanto con un sussulto mi dico adesso ci manderà tutti affanculo, ridicolizzerà i nostri immondi tentativi di convinzione operata sul povero pazzo, e ci darà una lezione di persuasione dialettica. Metterà a frutto quei dieci lunghi sanguinosi anni di corso universitario.
Ma niente.
Niente persuasione.
Niente retorica.
Michelstaetder è morto invano.
Digita, questo nostro supremo mentore psichiatrico, sms con la rapidità di un campione del mondo, perso dietro e dentro qualche mondo di Oz, una realtà parallela in cui i pazzi non esistono e lui percepisce lo stesso uno stipendio tra pompini e telefoni cellulari più semplici da scardinare.
In questi frangenti, mentre avverti nitidamente il freddo e la notte farsi vicini, mentre le stelle in cielo diventano un caleidoscopio di diamanti disossati e i lampeggianti si fanno più puntuti e bargiglianti, ombre trascoloranti di blu cupo lungo le pareti delle case, la mente vaga e si perde lungo direttrici poco simpatiche di nichilismo. Pensi a questo pazzo, alla sua furia insensata ma divertente, al suo costituire una minaccia per il sonno del vicinato, al suo ingurgitare deiezioni merdose, alla sua storia, alla sua esistenza frantumata, alla sua famiglia, marginale e deviata, forse morta certo assente.
Pensi a quanto meravigliosa sia la nostra grandiosa società, alle sue geniali elucubrazioni di ordine costituito, al rimuovere i drammi semplicemente nascondendoli. L’intuizione di Basaglia, aldilà di tutti i nebbiosi sofismi e di tutte le pastrocchiate incertezze di linguaggio giuridico, fu epocale; chiudete questi parcheggi di invisibilità, e riprendetevi i vostri pazzi.
Guardateli. E guardateli bene, dritto negli occhi, dove fa più male.
Il nascondimento è terminato, ed ora tana libera tutti. Le famiglie continuino le loro vie crucis, sofferenti ma oneste, e la società si ponga il problema, si disgusti, sbraiti e si lamenti, come questa vecchia tornata alla carica coi suoi discorsi grondanti indignazione.
Avrebbero dovuto fucilarlo Basaglia, dice la signora. Sputacchia le parole con aria grave e catarrosa, deve avere la dentiera montata male, troppa colla, troppo veleno inoculato dalle disfunzioni sociali –  gratificante cessare di essere il problema e trovare qualcuno che si prenda la croce e diventi lui il problema, me la vedo la vecchia con la sua pensione scandalosamente bassa, le sue ciabatte orrende, la sua dimenticanza da senescenza non certo saggia ma inutile, inutile come tutti i vecchi proprio, dimenticata pure lei da figli e nipoti, tanto è povera non ci sono nemmeno prebende natalizie quindi meglio scordarsi di questa vecchia nonna e madre tumulata dentro un loculo di edilizia popolare.
Beve vino in cartone, quel pazzo barbone. E probabilmente anche questa anziana ed inutilissima donna che mi sta parlando beve pessimo vino in cartone. Non so, ho l’impressione che dovrei citarle Artaud. E citarlo anche allo psichiatra, e lui riprendendosi dal salvataggio in rubrica del numero di qualche mignotta mi risponderebbe che non segue il calcio francese.
Ho questo vizio. Insolentire chi se lo merita.
Quindi, tutti.
Dimostrassero che ho torto. Me lo dimostrassero mentre tra garze sterili, guanti anti-taglio e mascherine mediche di protezione fasciano il pazzo e lo accomodano sul lettino della autoambulanza, e gli iniettano un bibitone di psicofarmaci ordito e complottato dallo psichiatra, riemerso per un nanosecondo dalla sua battaglia tecnologica.
Un poliziotto bofonchia, meno male.
L’ispettore può andare a prendere il figlio, senza indugi e senza ritardi, si congeda con movenze da dittatore sudamericano sicuro di essersi guadagnato un’altra serata di pace familiare. I vigili del fuoco risalgono sul loro mezzo, in processione, stanchi, perplessi sul significato del loro intervento – io sono poggiato con aria ugualmente perplessa allo sportello della macchina di servizio, e mi pongo quesiti pornografici.
Rivolgo una occhiata allo psichiatra che sta finendo di compilare il resoconto storico del trattamento – non ha detto una parola al pazzo. Che smetterà di essere pazzo, e diventerà degente o paziente o qualche altra roba politicamente e nominalmente corretta, escogitata all’esito di una sontuosa commissione parlamentare con giuristi, medici, consulenti, esperti ed onorevoli, tutti a messaggiare coi cellulari, dopo dieci anni di università.
Il trasporto è veloce, con le sirene innestate e una giostra di piroette e sagaci sorpassi sulla destra, a zig-zag nel preoccupante traffico romano.
Diretti in rumorosa processione verso un incontro di istituzione carceraria tra letti di contenzione e vestigia architettoniche trasudanti isolamento e desolazione, quel genere di solipsismo che si riflette su vetri opachi, sporchi, incrostati, attraverso cui sguardi di medici, di infermieri, di degenti e di familiari rotti dal peso insostenibile dell’essere stati lasciati soli da quello stesso Stato Moloch che ora esige un tributo emotivo di sangue si intrecciano silenziosamente si sposano si temono e si infrangono. Una deriva continua.
Non c’è speranza, pur senza bisogno di nichilismo punk da no future, senza volantini malamente ciclostilati o promesse abbrutite di infanticidi divini, siamo tutti in anticamera, attraversiamo i gironi e le sale e i bagni e l’aria è pesante, puzza di detergenti e di urina e di vomito rappreso e di depressione cronicizzata, vite sospese eternamente sul crinale di un limbo non definito, sfocato, come un panorama allucinato e psichedelico.
Deformati, i degenerati figli della speranza; ed è meglio capiscano, per essere liberi, che mangiare merda è sbagliato. Che cospargersi il capo di cenere ed escrementi, nell’assurdo tentativo di comunicare quel che si ha dentro, è un atto anti-sociale, a meno che non ci sia il pretesto socialmente redimente di un vernissage di laureati al DAMS e teste di cazzo di redazione editoriale, e giovani galleristi disoccupati per scelta in quanto molto ricchi di famiglia.
Il lavoro rende liberi, come la salute mentale.
Un parametro che ci affrettiamo a consultare mentalmente mentre distendono quel corpo martoriato sul lettino di contenzione e iniettano nelle vene vari milligrammi di sostanza psicofarmacologica denominata Aldol un antipsicotico neurolettico talmente invasivo da dover essere spesso accompagnato da un altro composto l’Akinedon per evitare spasmi e deformazioni facciali e plastici tracimamenti fisiologici oppure contrappassi di violenza insensata, per dargli quel composto silenzioso e mattoide sostrato di accettabilità – la salute mentale, fondamentalmente, significa non rompere il cazzo al prossimo. Chi eccede, chi trasgredisce, viene messo in castigo e fatto scomparire. Libero di rimanere seduto tutto il giorno a fissare l’orizzonte che inizia e finisce nel palazzo di fronte, dove si affacciano signore popolane abituate ormai agli internati.
Avrebbe voglia di morire, probabilmente. E non potendo morire deve limitarsi ad urlare con quanto fiato ha in gola, un grido prolungato, oggettivamente orribile, che si propaga per i corridoi grigi e altrimenti silenziosi, echeggia a lungo impregnando le nostre divise e le porte e i volti somaticamente rassegnati degli operatori.
     La pace.
     La sua pace.

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