domenica 4 dicembre 2011

Nel vortice del Caos (Termini I)



Le invisibili intersezioni del desiderio , che si dipanano nell’arco temporale di notti tutte uguali e per latitudini e longitudini metropolitane  , pur partendo dall’isolamento architettonico di Valle Giulia e di Tiburtina e delle praterie di Rebibbia finiscono inevitabimente qui, alla Stazione Termini, nelle saune e nei motel, nelle case e nei bar aperti 24 ore su 24, nelle mandrie bestiali di immigrati senza volto né futuro né speranza, disposti a tutto e tra cui pescare il frutto di un capriccio estemporaneo. Ragazzi di strada in lisi giubbotti di pelle, capelli arruffati non proprio alla Citti o Davoli ma su quel genere, modi difficili e la rudezza tipica di chi vorrebbe, a parole, mantenere un certo grado di virilità nonostante si stia abbassando a puro oggetto di mercimonio omosessuale.
Travestiti.
Trans. Operati o non operati. Italiani o sudamericani, le loro storie peculiari di giovinezze in metamorfosi perenne.
Ibridazioni in transito, che vi faranno assaggiare il loro cazzo, i loro eczemi, il loro herpes,  e le blatte e le piattole e ogni incrostazione e suppurazione che si agita nell’oscurità delle loro mutande e da cui riceverete e a cui darete nuove malattie e a cui direte, con voce blesa e rotta dall’eccitazione, un grazie che echeggia come un colossale monumento all’ipocrisia.
L’arte contemporanea  è una cosa così stupida.
Per menti che necessitano di essere confortate dalle interpretazioni e dai significati, avvolte dall’alone romantico delle Mostre, dei pomeriggi trascorsi davanti un quadro con l’unico scopo di fare colpo, intellettualmente e fisicamente,  sugli altri, l’ostentazione fallace, e sul lungo periodo disgustosa,  della propria saccenza accademica  .
In una mostra fotografica di Antoine D’Agata , inaugurata a Roma nella assai adatta cornice della Stazione Termini, diversi critici d’arte si sono affrettati a ribadire il criterio di astrazione e di interpretazione che gli scatti del fotografo francese seguono; le prostitute, i malati di AIDS in fase terminale, la mercificazione del corpo, il dolore vengono, secondo questi critici, resi arte dal bianco/nero, dall’illuminazione virata e così sottratti al peso e allo squallore della vita reale . Ma se dopo l’inaugurazione, questi critici si fossero presi la briga di fare un giretto nei vicoli adiacenti la Stazione avrebbero visto e capito che la realtà di cui parla D’Agata, a prescindere da semiotica e libri accademici e illuminazione più o meno accuratamente studiata, non ha nulla di gradevole. Nulla nel cui nome sorseggiare champagne e sorridere felici.

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