domenica 4 dicembre 2011

Frammento III



Il suicidio.
Lo dice subito, in maniera secca, vedo i suoi occhi dilatarsi in un moto di rabbia davvero intensa, quasi da far spavento. Non c’è torto peggiore per uno psicoterapeuta di un paziente suicida, è un qualcosa che prendono molto sul personale, un fallimento, una spina nel fianco, un rimorso che lacera non tanto la coscienza quanto la fedina professionale.
Si è impiccata una sera di dicembre, a casa, dopo essere tornata dalla nostra seduta di terapia, mancavano pochi giorni al Natale, un periodo davvero critico per i depressi, poi lei con quella malattia degenerativa la depressione se l’era sposata.
Per la prima volta, esprime un concetto che trovo affascinante. Sposare la depressione. Accettarla. Viverla come il principio, inesorabile, della fine.
A Natale, sotto Natale, dice il medico, con quelle luci, le vetrine, il freddo, l’aria di forzosa felicità, quel momento di famiglie ipocritamente riunite nonostante magari ci siano state faide e dissapori e dolorosi screzi, il depresso si sente più che solo, abbandonato, alla deriva, naufrago nel cosmo. Roba da fondarci religioni, per evitare lo spavento, sussurra. Ed io condivido, si, roba da fondarci religioni proprio.
Tutte le persone che sono passate per queste stanze mi hanno lasciato qualcosa, ma non nel senso esteriore, e deteriore, come potrebbe essere quello del collezionismo, perché queste persone, questi caratteri, queste sofferenze, sono vischiose, ti si legano ed appiccicano all’anima, nel profondo, e non esiste credimi terapia, conforto medico, asetticità scientifica, che possano esserti di ausilio nel sentirti, come Atlante, rovesciare il peso del loro mondo addosso, sulle spalle. E’ un peso che spezza il marmo. Mi potrai giudicare male, continua guardandomi dritto, mi potrai giudicare insensibile, stupido, egoista, avvinto da una routine burocratica, e tutto sommato avresti ragione, perché questa è sopravvivenza, devo diventare impermeabile, cercare per quanto possibile di limare e limitare l’empatia, altrimenti non avrei speranza.
Nessuno dovrebbe avere speranza, dico io, affiancandolo davanti al vetro, la speranza lasciamola a chi non ha mai sperimentato un briciolo di crudeltà – indossiamo tutti la divisa sbagliata. Ci siamo persi nel deserto, e la fortezza Bastiani non si raggiunge più con l’autobus ATAC, ci sono ragazzini che lo prendono a sassate come sport, non sia mai.
     Penso di capirlo, dice, quel Natale è stato terribile. Terribile, e lo sillaba per farlo echeggiare meglio nel    
     silenzio irreale della stanza. Hai presente quei consuntivi esistenziali da poco prezzo ? Ho presente, gli   
     faccio capire annuendo.

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