domenica 4 dicembre 2011

Frammento IV





Via di Salone, orizzonte di capannoni industriali, fermate dell’autobus popolate di spettri lumpenproletariat e un cielo grigio basso screziato dai fumi della terra di Mordor – e come se non bastasse, a far da cornice una rada brughiera marroncina inerpicata su pendici scoscese, generalmente residui argillosi di latenti abusi edilizi e cave altrettanto abusive. Camion che vanno avanti ed indietro percorrendo direttrici fittizie, a ridosso del Raccordo Anulare, della Collatina e della Casilina, un randagio esempio di totale mancanza di gestione del territorio che si irradia come metastasi urbanistica nel costato di Roma.
Un lembo di terra violentata talmente schifoso da non ospitare nemmeno il consueto corteo di puttane scosciate. Solo pendolari della miseria, carrettini raccogliticci, carovane di cosacchi lerci che risalgono il fiume di fanghiglia ed erba morta e foglie cadute, tra gli alberi, e le rampe di accesso al GRA.
Provengono generalmente dal cuore del Campo Nomadi. Un campo nomadi pensato e realizzato come villaggio vacanze per tentativi di integrazione falliti nel momento stesso in cui sono stati pensati. Progetto eclatante di una amministrazione che tutto rimuove e tutto nasconde sotto l’immaginifico tappeto della indifferenza, problemi che vengono risolti soltanto spostandoli.
In fuga dal razzismo questi cosacchi nomadi,  e da inesistenti guerre etniche, nell’epoca in cui dire etnia significa, fondamentalmente, finire sul banco degli imputati; la razza ormai esiste solo per parlare, e sparlare, di razzismo, per reclamare fondi e sussidi e determine dirigenziali.
E tutti questi simpatici cosacchi multicolori sono transfughi dell’esistenza, vittime perenni della discriminazione e del razzismo. Di Stato, bottegaio, ipocrita e feroce, e per fortuna che ci sono i volontari delle organizzazioni umanitarie, non governative - in Italia volontario significa stipendiato perché non si è stati in grado di trovare altra professione e perché si è deciso di laurearsi in sociologia con una tesi su Bobo Vieri salvo poi piangere e strepitare e dire di essere incompresi e disoccupati per colpa dell’egoismo e del razzismo.
Essere volontari significa decantare la bellezza della cultura nomade, gitana, di questi figli del vento, farsi le canne e suonare i bonghi contro ogni riforma della pubblica istruzione, costringersi a guardare documentari hutu e ascoltare musica bantu dentro loft ai Parioli, appannaggio di genitori razzisti, ma ricchi e potenti, che potranno garantire futuro e speranza persino ad un figlio laureato in sociologia.
Essere volontari, equi e strutturalmente solidali, significa anche detestare il nostro mesto avanzare spianato dai lampeggianti innestati, la nostra marcia funebre sottolineata dal gracchiare confuso della radio di servizio e dal flusso contrario di traffico, che ci scivola di fianco mentre maledico il paesaggio lunare steso tutto attorno. Siamo l’incarnazione in metallo e modulistica di un mondo feroce, ghignante e satanico, che si stende come un sudario sulle aspirazioni di queste famiglie nomadi sistemate dentro casette prefabbricate.
L’ingresso non è particolarmente coreografico, un cancello a doppia anta tipo parcheggio di scambio ai cui lati svettano ruderi ed un muro mezzo franato su cui mano ignota ha vergato, e non c’è nemmeno bisogno di dire nottetempo perché qui ogni forma di trasgressione al regolamento di polizia urbana e al codice penale è manifesta e diurna, graffiti di sgrammaticata rivendicazione sociale.
La propensione ad accampare rivendicazioni sociali è direttamente proporzionale al tasso di illegalità e di schifo in cui si vive – l’ho potuto notare con una certa rassegnata solerzia, e naturalmente con la consueta dose di razzismo che mi separa dai volontari salariati laureati in sociologia.
Non ho sfortunatamente accesso ai locali alternativi dentro cui sfasciarsi di proclami cosmopoliti e di assenzio, non ho revanche decadente, né una versione farsesca del 1789 francese ricontestualizzato all’epoca degli ascanii-celestini e dei darii-fo, non aspiro alla decostruzione analitica ed antropologicamente orientata di Uomini & Donne né redigo e spedisco lettere indignate ai vari supplementi dei giornali progressisti, non mi sono costruito un ologramma veteromarxista senza Marx, né altrettanto sfortunatamente ho capacità di partecipare alle rivendicazioni altrui pur essendo barricato, letteralmente, come sono loro in quartieri dove la povertà si misura nel numero di barche ormeggiate in costa smeralda.
Sono troppo razzista per poter ammirare questa fanghiglia che schiuma rabbiosa e gorgoglia, tra fuochi e fumi cancerosi di copertoni, e dentro cui giochicchiano bambini seminudi, scalzi, sporchi e laceri, circondati da genitori drogati o sbronzi o intenti a cucinare una broda malmostosa fermentata, con la parabola satellitare per guardare il Milionario rumeno e altri ottocento canali che rappresentino una fuga dal deserto del reale.
Solo che il deserto del reale qui, a me inguaribile e briccone razzista, appare come una distesa di prefabbricati abbastanza ordinati ma coperti ormai da una patina inquietante di graffiti, spacchi, rotture, abrasioni, sporcizia di vario ordine e genere, cataste di cocci bottiglie spazzatura ed altra spazzatura, rottami copertoni in fiamme lembi di cuoio stracci cassonetti rovesciati, una meccanica quantistica di desolazione.
Si, soltanto un razzista può pensare che non sia bello, anzi meraviglioso vivere in questo modo. L’integrazione sociale è una realtà quotidiana che ammiri mentre premurosi papà ingioiellati e agghindati come improbabili rapper, volti scuri ma non etnicamente resi fuligginosi sporchi proprio di fumo perché l’usanza retaggio di oscure tradizioni è bruciare tutto, soprattutto le cose che producono il fumo più nero, denso e oncologicamente apprezzabile, tengono ardite lezioni ai figli su come far sgattaiolare una mano nelle tasche dei turisti, si fermano soltanto un minimo perplessi quando capiscono che li stai osservando con trasporto emotivo e processualmente rilevante.
Ogni passo che muovo in avanti è una agonia dello scarpone nel fango, una transumanza di bestemmie e di idiozie, di finti sorrisi, di agghiacciante disgusto – porca puttana, dice il mio compagno di sventura ogni volta che è costretto a saltare una merda di cane, volendo sperare sia di cane.
Anche se i cani sono pelle-ossa, ridotti malissimo, sbilenchi e zoppi, malnutriti, cenciosi, pietosi, senza uno straccio di animalista che ne rivendichi i sia pur scarsi diritti, non sia mai, pure qui, fare la figura dei razzisti millenari, dando consiglio a questo fiero popolo di nomadi abituato da eoni alla pastorizia e al rispetto della natura su come gestire allevare curare e amare i cagnolini.
Questo campo nomadi è un luna-park, un agglomerato putrefatto di speranze sopite e di miseria, e di crudeltà sociale.
Ma qui Disney si è fermato a Dachau.

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